Quell'islam plurale
Ecco un dossier complesso, per molte ragioni, in linea di massima evidenti, a partire dalla sensazione generalizzata che l’islam oggi attraversi una delle fasi più intricate della sua storia ultramillenaria. In ogni caso, se su un versante è necessario tornarci a ripetere che l’islam è un fenomeno plurale e vario e irriducibile a una lettura appiattita sugli eventi terroristici, sull’altro dobbiamo ammettere che non è più sufficiente, oggi, limitarci a sostenere come un mantra che “islam significa pace, dal termine salaam”, che “l’islam non c’entra”, o che “l’islam è un’altra cosa”, e così via.
Sì, occorre il più possibile entrare dentro le contraddizioni interne all’islam, decifrarle e denunciarle; ma anche dentro le contraddizioni del campo cristiano o occidentale (beninteso, entrambi gli aggettivi, tutt’altro che vergini, avrebbero bisogno di mille precisazioni, e vanno usati con le molle), relative alla nostra incapacità di pensare l’islam, di riflettere a fondo sull’urgenza di un maggiore investimento ecclesiale sulla conoscenza dell’islam e sul dialogo cristiano-islamico, cosa che parrebbe evidente, rendendoci conto che l’attuale stagione di pluralismo religioso diffuso su scala planetaria non va intesa come momentanea o addirittura emergenziale, bensì come un dato strutturale e permanente della (cosiddetta) postmodernità.
Per questo, siamo a una svolta cruciale: verso un rinnovato quanto illusorio affidamento all’identitarismo culturale e religioso, oppure aperta a nuovi scenari in gran parte tutti da delineare, ma in cui le relazioni interculturali e interreligiose si facciano grammatica comune del vivere sociale, di una cittadinanza pienamente glo-cale. D’altra parte, non possiamo negare che oggi, nella percezione collettiva, le religioni (e non solo l’islam!) siano desolatamente viste come detonatrici di violenza, terroristica, psicologica, verbale, e non solo, più che come collettrici di speranza, misericordia e apertura all’alterità. Qui siamo ora, e siamo chiamati a prendere sul serio sia il qui sia l’ora. L’obiettivo delle pagine che seguono è, dunque, quello di mettere i piedi nel piatto, presentando i grumi più amari e gli spazi di chiusura reciproca (un senso di violenza quotidiana che permea la vita e l’informazione, le questioni di genere, le difficoltà di essere giovani musulmani additati al pubblico disprezzo senza alcuna colpa); senza dimenticare, peraltro, che si danno già oggi buone pratiche ed esperienze consolanti, poco note anche perché giudicate poco notiziabili (la nonviolenza nell’islam, il dialogo cristianoislamico, le storie di diakonia reciproca). È, quindi, urgente, in tale direzione, dare spazio e raccontare il bello e il buono che esistono, ma rimangono affogati nell’informazione allarmistica e tutta urlata cui siamo ormai rassegnati: anche perché il dialogo fornisce ai credenti (ma non solo a loro) un’opportunità per decostruire assieme quell’universale tendenza umana all’esclusivismo, allo sciovinismo, alla violenza e all’odio che possono infettare – e nei fatti stanno infettando – le identità di fede. Un primo passo, allora, indispensabile in vista di altre riflessioni e altri percorsi. Perché la sfida decisiva che attende oggi le Chiese è di evitare una lettura delle differenze esistenti, pur profonde, come scontro tra bene e male; di rifuggire l’identificazione di un islam astratto, disincarnato; di rifiutare con chiarezza la demonizzazione dell’altro. Per riuscirvi, occorrerà guardare alle nostre differenze non come a idoli da adorare, ma come arricchimento reciproco verso una vita piena di amore: quell’amore che per cristiani e musulmani, dopo tutto, caratterizza l’essenza stessa di Dio.