ULTIMA TESSERA

Obiettori, per sempre!

Il ricordo e la memoria di Pietro Pinna, grande obiettore di coscienza della storia italiana e testimone nonviolento. Dal rifiuto di obbedienza all’obiezione.
Diego Cipriani (Caritas Italiana)

“Come tutti i maestri, anche Piero sembrava che non se ne dovesse mai andare”. In un pomeriggio di aprile, riuniti nello salone del Centro Valdese di Firenze (che ha ospitato tanti incontri e riunioni del movimento pacifista nei decenni passati), gli amici e conoscenti di Pietro Pinna, provenienti da tutta Italia, lo ricordano in una “veglia laica nonviolenta”, prima dell’ultimo saluto nella chiesa di San Francesco. Eppure se ne è andato anche lui, il 13 aprile scorso. Portandosi dietro la fama di “primo obiettore di coscienza” che lo ha seguito per tutta la vita e che lui, puntualmente, rifiutava, precisando che c’erano stati già altri obiettori prima di lui.

Quella di Pietro Pinna è una storia che ormai si perde nella notte dei tempi, quasi settant’anni fa. Ricordarla può essere utile, soprattutto per i giovani.

Settembre 1948: il giovane Pietro, ventuno anni, origini sarde, ragioniere in banca a Ferrara, entra in caserma a Lecce per il Corso Allievi Ufficiali, “con l’animo già profondamente impersuaso”. Alla maturazione del suo rifiuto del militare contribuisce certamente l’incontro con Aldo Capitini, filosofo e politico, padre del movimento nonviolento italiano. Nel giro di qualche mese, Pietro manifesta ai suoi superiori l’intenzione di rifiutare la vita militare, ma sarà solo nei primi mesi del 1949 che, escluso dal corso per allievi, viene inviato dal ministero della Difesa a Casale Monferrato per espletare il servizio di leva. Lì il suo “rifiuto di obbedienza” viene subito punito con la galera. Il che, trattandosi di carcere militare, e di un reato contro lo stesso sistema militare, non era certamente una passeggiata.

Il primo processo, presso il tribunale militare di Torino, si chiude con la condanna a dieci mesi, con la sospensione condizionale della pena. Ma non avendo comunque assolto all’obbligo di leva, dopo qualche giorno viene chiamato nuovamente in caserma, questa volta ad Avellino. “Così siamo da capo”, scriverà a un amico. Secondo processo, presso il tribunale militare di Napoli, con condanna a otto mesi. La detenzione presso il carcere militare di Castel Sant’Elmo viene interrotta da un’amnistia concessa in occasione dell’Anno Santo del 1950. Ma resta pur sempre un obbligato alla leva.

Quarta chiamata in caserma, a Bari. Qui però il caso si risolve subito: Pietro viene congedato dall’ospedale militare per “nevrosi cardiaca” (malattia di cui ovviamente non ha mai sofferto). Finalmente è libero. Scriverà più tardi: “Alla fine, chi soggiaceva al fatto e ripiegava dalla propria posizione era l’esercito: aveva obbligato un cittadino a prestare il servizio militare; avendone ricevuto la più ferma opposizione per motivi di coscienza, si piegava a consentirgli di tornarsene a casa, impotente a farlo sottostare all’obbligo impostogli”.

Fin qui le vicende militari e giudiziarie. Ma quello di Pinna non sarebbe mai diventato un “caso” se attorno a questa vicenda Capitini non avesse costruito un motivo per rilanciare pubblicamente non solo il tema del riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza (che giungerà 24 anni dopo) ma quello più generale dell’opposizione nonviolenta alla guerra. Il filosofo perugino scrive ad amici parlamentari, coinvolge pacifisti italiani ed esteri, interviene sulla stampa e in tribunale. A Pinna giungono manifestazioni di sostegno da Tatiana Tolstoi, figlia di Leone, e della vedova del presidente americano Wilson; 23 parlamentari britannici scrivono una lettera al presidente della repubblica Einaudi e al presidente del consiglio De Gasperi; il socialista Calosso e il cattolico Giordani presentano la prima proposta di legge per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza. Ovviamente, accanto alle manifestazioni di consenso, ce ne sono molte altre di condanna, non solo dagli ambienti politici più conservatori (ma anche il Partito Comunista non appoggiò la causa), ma anche dalle gerarchie della Chiesa cattolica.

Ma l’impegno nonviolento di Pinna non termina certo con il congedo militare. La sua vita è letteralmente dedicata al movimento nonviolento in Italia: collabora con Capitini per la prima marcia Perugia-Assisi e per fondare nel 1962 il Movimento Nonviolento e nel 1964 “Azione Nonviolenta”, organizza le marce antimilitariste, sostiene la resistenza di altri obiettori e lotta per avere una legge che non li mandi più in prigione, allarga l’obiezione alle spese militari…

La sua figura è entrata ormai nella storia e migliaia di obiettori, fino a ieri, e di volontari del servizio civile, oggi, se la sentono riproporre e ne rimangono colpiti, anzitutto come esempio di coerenza (virtù sempre più rara ai nostri tempi) e di radicalità. Sebbene lui stesso fosse molto critico nei confronti del movimento degli obiettori dopo il riconoscimento giuridico ottenuto nel 1972. Intervistandolo oltre una decina di anni fa, all’indomani della decisione di sospendere la leva obbligatoria, gli chiesi se non riteneva che quella decisione decretasse anche la morte dell’obiezione di coscienza. “L’obiezione era già morta prima” mi rispose, “con l’introduzione del servizio civile”. Lo stesso giudizio tranchant che udii la prima volta che lo conobbi, a un congresso della LOC, sul finire degli anni Ottanta e che francamente, da obiettore di coscienza “naif”, mi fece restar male. Col tempo, poi, ho imparato (e trasmesso ad altri obiettori più giovani di me) a ribaltare in positivo quello che per alcuni può sembrare un limite in ciò che Pietro Pinna andava dicendo e facendo e cioè la sua opposizione alla guerra in chiave eminentemente antimilitarista. In altre parole, il suo appello agli obiettori era di non farsi richiudere nel recinto di un “bel” servizio civile, ma di continuare a coltivare il rifiuto integrale della guerra.

Nasce proprio qui l’ostinato sforzo che il movimento nonviolento deve fare oggi (e sta facendo) di ri-fondare anche l’attuale servizio civile sugli stessi fondamenti dell’obiezione alla guerra e alla violenza, su un’idea di difesa della patria alternativa a quella basata sulle armi, sulla costruzione di una pace che salvaguardi non solo le relazioni tra umani ma anche con il pianeta che abitiamo. Oggi, quando vediamo che il richiamo della guerra e della violenza organizzata continua a conquistare tanti uomini, forse è il caso di riproporre anche ai giovani quei “due poli fissi che mi orientarono nella ricostruzione personale della mia concezione della vita”, come scrisse Pietro Pinna: la nonviolenza e la nonmenzogna.

Grazie, Piero!

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