Quando si dice mafia
La Corte di Appello di Roma ha dimezzato di fatto le pene che erano state inflitte ai membri del clan Fasciani e Triassi in primo grado e ha assolto alcuni presunti affiliati del clan stesso. Il clan era considerato il padrone di Ostia. Tra i reati contestati ci sono usura, estorsioni, intestazione fittizia di beni, controllo di attività economiche, appalti, concessioni, traffico e spaccio di sostanze stupefacenti... A determinare i giudici è stata la valutazione secondo la quale non esiste in questo caso l’aggravante del metodo mafioso e che si tratti piuttosto di associazione a delinquere pura e semplice. Pur in rispettosa attesa di conoscere con precisione le motivazioni della sentenza, è inevitabile manifestare qualche dubbio, perplessità e preoccupazione. Innanzitutto per un motivo procedurale dal momento che la Cassazione ha confermato la condanna per associazione mafiosa a coloro che erano parte dello stesso clan, avevano commesso i medesimi reati ma hanno preferito scegliere il rito abbreviato e pertanto sono stati giudicati a parte. Ma il dubbio più profondo è che questa sentenza segni un arretramento storico sulla concezione di mafia e non mafia e che, alla fine, possa arrivare a influenzare anche altri processi in corso, primo tra tutti Mafia capitale. Insomma resto della convinzione che laddove non si compiano reati solo per arricchirsi ma anche per esercitare il potere su un territorio, è mafia. Quando non ci si limita a fare soldi con furti, frodi e trucchi ma si arriva a corrompere, intimidire e minacciare, è mafia. Quando si tende al condizionamento dell’attività economica e politica di una comunità, è mafia. Prima delle sentenze, lo avverte la gente.