Europa meno uno
Sovranità, governance e dibattiti post Brexit.
Se uno fosse proprio ottimista potrebbe concludere che il dramma greco, e adesso la stupida Brexit, sono serviti. Per sessant’anni dell’Europa non si è infatti mai discusso, solo un po’ di retorici e del tutto agiografici sproloqui, che nessun cittadino normale si è, giustamente, mai curato di leggere o ascoltare. Adesso, finalmente, il tema è diventato popolare e, nel bene e nel male, tutti cominciano a chiedersi cosa realmente sia questa Unione, di cui ci si trova ad essere cittadini. E cosa bisogna farne.
Io non sono molto ottimista perché penso che la situazione sia pessima e difficilissimo migliorarla. E però sono contenta che un dibattito si sia aperto, coinvolgendo anche i non addetti ai lavori.
Non è un dibattito facile da governare, perché in realtà gran parte di chi vorrebbe mandare all’aria l’Unione – e fra questi tutti gli inglesi – è spinta da questo desiderio per ragioni che poco hanno a che vedere con l’Unione stessa. La loro è l’espressione di una protesta anti-establishment ormai dilagante e per le buone ragioni che sappiamo: la disuguaglianza crescente, la cancellazione di diritti conquistati con lotte durissime, l’incertezza indotta da una precarietà che non sembra superabile. Accompagnata dall’illusione che se la propria nazione recuperasse piena sovranità le cose andrebbero meglio.
È di questo che preferisco parlare ora, piuttosto che di cosa accadrà con la Brexit. Detto in due parole: cercare di spiegare perché, sebbene il processo di unificazione europeo sia nato malissimo nel 1957 – gli antifascisti di Ventotene non ne furono affatto i padri; e, anzi, dissero subito che non si riconoscevano nel”mostricciattolo” che era stato dato alla luce – e susuccessivamente, nel 1993, approdato al pessimo Trattato di Maastricht, poi più o meno riprodotto in quelli successivi, fino a quello attualmente in vigore detto di Lisbona per via della città dove, nel 2009, fu varato – cionostante l’Unione Europea va salvata (anche l’Italia, del resto, non è venuta molto bene, e però non ci sogneremmo di buttarla per tornare ai Granducati).
Dovrebbe essere chiaro che la sovranità degli Stati nazionali è stata da tempo ridotta a poco, e non per via di una requisizione del potere reale da parte della burocrazia di Bruxelles. È perché in questi decenni non è stata solo privatizzato questo o quel servizio pubblico, ma persino il potere legislativo: le decisioni che contano, quelle che poi determinano la vita di tutti, non sono più prese dai Parlamenti nazionali, e tantomeno da quello europeo, bensì sulla base di accordi sul mercato globale fra gruppi finanziari o multinazionali. Ai governi locali resta il dettaglio dell’applicazione, come era per i Califfati in rapporto al vero potere imperiale ottomano insediato a Costantinopoli.
Pensare di poter recuperare sovranità a livello nazionale è assurdo. E però non ci si deve rassegnare, e occorre continuare a lottare per recuperare il controllo sulle decisioni assunte, vale a dire per tornare a far valere la politica – e cioè la scelta degli umani – sugli orientamenti di quello che viene chiamato “il pilota automatico del mercato”, che non è affatto governato da un automa, ma dalla ferrea, sebbene invisibile, mano del famoso 1% dell’umanità.
Potremo farlo a livello del globo? È del tutto evidente che costruire istituzioni realmente democratiche a quelle dimensioni, popolate da storie, culture, società così diverse, sarebbe impensabile. Possiamo provarci, per difficile che sia, se disarticoleremo questo globo opaco in macro regioni, entro i cui confini sarebbe forse ancora possibile.
Fra queste macroregioni l’Europa è quella che può più facilmente riuscirci. Perché, nonostante tutti i suoi tremendi difetti, resta il continente che, per via della sua storia di lotte e di accumulazione di esperienze, si presenta tuttora come il più grande contenitore di diritti sociali e democratici del mondo. Non è un patrimonio da poco; e per questo sarebbe follia buttarlo via spensieratamente per restare pagliuzze al vento in preda alle incontrollabili turbolenze degli oceani.
Provarci significa tuttavia aver chiaro che chi ha oggi il potere nell’Unione, e lo esercita attraverso la ossequiente burocrazia di Bruxelles, sta facendo di tutto, questo patrimonio storico europeo, per delapidarlo. Innanzitutto, per buttare via la democrazia.Che non sono solo diritti e garanzie individuali, ma potere delibeativo. Lo fanno al punto di teorizzare che siamo ormai entrati nell’era post–parlamentare, la complessità del mondo non potendo più esser gestita dalla politica (cioè, da chi rappresenta la società), ma debba essere affidata ai tecnici, agli amministratori, come se l’Europa fosse una banca da far gestire da un Consiglio di amministrazione. La chiamano governance, infatti, che non è la traduzione inglese della parola governo, ma tutt’altra cosa. Si tratta di una trasformazione del nostro modello democratico che è stata avviata da tempo, da quando – qualcuno dei più anziani forse lo ricorda – fu creata, nel 1973, la Trilateral – patto fra USA,Europa, Giappone, i tre pezzi dell’Occidente forte – che, nel suo manifesto di lancio, ammonì che “era cresciuta troppa democrazia e che il sistema non poteva permetterselo”. Fu la risposta ai grandi movimenti che avevano investito – nel terzo mondo come nel primo – lo status quo nel decennio precedente.
Come riprendere oggi, dopo aver subito non poche sconfitte, la nostra parola e riappropriarci del nostro destino? Innanzitutto combattendo le governances a casa propria (noi in Italia ne abbiamo una particolarmente arrogante), e poi costruendo un soggetto a livello del campo di battaglia che ci si offre: quello europeo. Non lo abbiamo mai fatto sul serio; e anche per colpa nostra l’UE è oggi così. Voglio dire che non ci sono in questa area quei corpi intermedi che sono le cinghie di trasmissione fra cittadino e istituzioni, quelle che danno sangue alle nostre democrazie nazionali: sindacati realmente europei, e neppure partiti, non parliamo dei media. Solo le associazioni sono spesso un po’ meglio, ma non molto. C’è stato una sola grande stagione in cui abbiamo operato in modo europeo: negli anni Ottanta, quando costruimmo un vero, unitario, efficace, movimento pacifista. Riproviamoci, affrontando i temi di oggi (ancora, pur sempre, non estranei al tema pace).