ARTICOLO 7

Storie per la Pace

Gruppo Bianco: Davide S. (IPM) - Michael Z. (IPM) - Francesca D.G. (Don Bosco) - Mauro P. (Don Bosco) - Paola S. (Boggio Lera)

Da anni spendiamo parole sul tema della pace, sui suoi eroi, sull’inesauribile desiderio di un mondo libero da guerre e sofferenze, ma davvero la parola "pace" ha lo stesso significato da un polo all’altro? Potremo mai un giorno proclamare la sconfitta dei principali conflitti nel mondo? Smetteremo mai di cercare di imporci l’uno sull’altro? Abbiamo scelto tre storie su sette miliardi di abitanti della Terra che siamo, ma ognuna carica di un significato tanto profondamente diverso quanto innegabilmente legato all’altro.

Antonino, 8 anni

Abbiamo visto decine di film, storie incredibili di ragazzini allo sbando usciti vincitori dalle difficili condizioni di vita in cui versavano, insomma tutti racconti a lieto fine. La realtà è, però, spesso diversa e la maggior parte dei bambini nati all’ombra della povertà e dell’ignoranza sono costretti a trovarsi al cospetto del duro mondo della criminalità e del disagio. Fortunatamente qualcuno ha la fortuna di ritrovarsi in qualche oratorio o associazione in cui riceve la possibilità di un’istruzione e di imparare valori come il rispetto, lo stare bene con se stessi e con gli altri. Antonino è un bambino gioioso che, nonostante le percosse della madre e la difficoltà di avere il padre in carcere, continua a lottare e a trovare il modo di divertirsi come qualsiasi altro suo coetaneo, spinto da un’irrefrenabile desiderio di imparare e sfuggire da quel mostro che spesso è la strada. Se dovessimo chiedere ad Antonino il suo significato di pace, siamo certi che risponderebbe “oratorio”, perché lì ci sono i suoi amici, gli educatori volontari che ogni giorno mettono a disposizione tempo ed entusiasmo per le vite altrui. Antonino sa che prima o poi dovrà andare via da quel piccolo pezzo di paradiso, ma chissà che non trovi il modo di portarsi un po' di quella pace anche al di fuori di quelle quattro mura.

Abel-Alee, 67 anni

Mi chiamo Abel-Aalee, vengo del Pakistan e ho 67 anni. Lavoravo tanto, avevo una bella moglie e due figli meravigliosi; avevo una grande casa, tante stanze, un tavolo per mangiare tutti insieme, finestre ovunque per far entrare la luce e tende che svolazzavano al vento. Cos’è la pace? Probabilmente se fossi ancora quell’uomo vi avrei risposto in modo diverso, non sarei stato in grado di capirlo, pensavo di averla conquistata. Ho visto cattiverie che non sono più riuscito a dimenticare, ho visto mia moglie scappare con il terrore negli occhi, ho visto il tavolo grande bruciare e le tende cadere, ho visto i miei figli piangere, ho visto la mia casa distrutta. Siamo scappati, da cosa? Da dove? Le cose sono cambiate, io stesso sono cambiato. La pace, dunque? La mia pace? Adesso mi è chiaro, adesso lo so: non erano le tende, il tavolo, le stanze, eravamo noi. La pace per me è essere ancora qui, vedere ancora il sole sorgere e tramontare, quando qualcuno mi aiuta, quando io stesso aiuto qualcuno, il tornare da mia moglie a casa e i miei figli che sorridono. Non credevo che sarei stato in grado di pensarla così, di dire ad alta voce certe cose, nemmeno che sarei riuscito a vedere la luce in fondo al tunnel. Costruirò una casa nuova, comprerò altre tende, ma ho imparato a vivere il qui e adesso, perché domani potrebbe scappare di nuovo. Mi chiamo Abel-Alee, vengo dal Pakistan, ho 67 anni e ho trovato la pace.

 

Andrea, 21 anni

 Prima ero libero ma non me ne rendevo conto, pensavo solo a me stesso, commettevo errori e ad un certo punto sono finito qua dentro. Mi chiamo Andrea, ho 21 anni e vivo in carcere. All’interno di un ambiente chiuso le “leggi” le creiamo noi, ognuno sa quello che si deve o non si deve fare, ognuno sa con chi si può o non si può parlare, più che altro è  una questione di convenienza: a noi conviene comportarci bene per evitare problemi, per avere permessi o per potere uscire prima da qua. Ormai ci conosciamo tutti, sappiamo da chi è meglio stare alla larga e chi è meglio tenersi vicino. Mi rendo conto che a volte agiamo in maniera sbagliata: non sempre aiutiamo qualcuno che si trova in difficoltà per evitare di trovarci in difficoltà anche noi, ma qua dentro è così che ci si deve comportare o si rischia di finire nei guai.  Creiamo questa situazione di “pace” perché ne ricaviamo dei vantaggi; nel mondo esterno non è così, la gente fa quello che meglio crede, non si è obbligati a dover rispettare la libertà del prossimo, non tutti agiscono moralmente perché realmente lo vogliono, ma la maggior parte delle volte si agisce seguendo il bene per un secondo fine. Stando all’interno di questo posto ho notato che molte volte le persone non si rendono conto di tutti gli sforzi che i propri cari compiono per loro; ho capito di non essere mai stato riconoscente alla mia famiglia, ho sempre preteso di avere tutto e subito, e commettevo degli errori. Il gioco non vale la candela e devo avere rispetto di me e del prossimo, non posso permettere che un mio capriccio faccia soffrire chi mi vuole più bene. Qualunque sia l’età, l’etnia e la religione ognuno di noi ha il compito di pensare a come rispettare il prossimo perché lo si vuole realmente e non perché ne traiamo dei vantaggi; nonostante questo principio ancora oggi le principali cause dei conflitti in tutto il mondo sono l’avarizia e gli interessi dell’uomo. È quindi possibile parlare di pace? A cosa servono realmente tutte le manifestazioni che vengono svolte ogni anno a favore della stessa? Ci sono stati personaggi che hanno anteposto il prossimo a se stessi, l’unico problema è che queste persone sono solo una piccolissima parte rispetto all’immenso numero che ancora oggi non si interessano al bene comunitario. La pace si realizza ogni giorno ma la domanda è se si può parlare di una pace totale. 

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