Quale riforma?
Ecco di cosa si tratta. E cosa è in gioco.
Andremo a votare di nuovo in un referendum costituzionale. E sarà la terza volta in quindici anni. Segno che nessuna di queste riforme a strascico della seconda parte della Costituzione è passata a maggioranza qualificata. Tutt’e tre sono passate con pochi voti di maggioranza, spesso dati per appartenenza o opportunismo politico (lo ha riconosciuto tempo fa il capogruppo NCD –Nuovo Centro Destra – che, pentitosi, si è dimesso): non con spirito costituente. Ma questa volta c’è un’aggravante: il pugno di voti in più è frutto di una maggioranza illegittima perché gonfiata dal premio di maggioranza bocciato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 1/2014. Chi avrebbe dovuto dare esecuzione alla sentenza questa volta non poteva essere il giudice o l’ufficiale giudiziario: per Costituzione era lo stesso Parlamento, che non lo ha fatto perché la maggioranza avrebbe dovuto dichiarare la propria illegittimità.
La prima parte della Costituzione
Questa maggioranza – che, al netto di quel premio, è in effetti una minoranza – ha riformato ben 40 degli 85 articoli della seconda parte della Costituzione. E a noi tocca prendere o lasciare: in blocco, senza la possibilità di distinguere, di separare il grano (poco) dalla zizzania. S’è fatto di tutte l’erbe un fascio e lo spacchettamento è stato proposto strumentalmente solo dopo le elezioni amministrative, quando è emersa la preoccupazione, indotta dai sondaggi, che davano il sì in fase calante.
Ma – si dice – l’importante è non aver toccato la prima parte, quella dei diritti. Falso: la riforma deroga di fatto proprio all’art. 1 della Costituzione, secondo cui “la sovranità appartiene al popolo”. Della sovranità, infatti, “la volontà dei cittadini, espressa attraverso il voto, costituisce il principale strumento” (Corte Cost. 1/2014) ma il Senato non sarà più eletto da noi cittadini, bensì dai consiglieri regionali e da questi, oltre che da un sindaco per ogni Regione, sarà composto. Questi senatori part time (ma con piena immunità parlamentare, come i deputati), eletti in base ad appartenenze partitiche, e quindi senza vincolo di mandato da parte delle istituzioni, sono l’emblema di un organo costituzionale privo, come una Città Metropolitana qualunque, dell’investitura popolare, ancorché rimanga titolare di numerose competenze legislative primarie e del potere di revisione della Costituzione. La fine del bicameralismo perfetto è, infatti, puramente propagandistica. La propagandata semplificazione non esiste: si prevedono ben otto farraginose procedure legislative in luogo delle attuali.
I costi della politica non giustificano il declassamento di un organo costituzionale. Comunque essi vengono ridotti in maniera non significativa. Il Senato costa, infatti, 530 milioni all’anno ma di questi solo 79 riguardano le indennità dei 315 senatori e 21 le spese per i gruppi parlamentari. Il resto sono spese fisse (stipendi dei dipendenti e costo dell’organizzazione), che rimarranno in piedi. Il risparmio sarà di soli cento milioni all’anno: una cifra irrisoria – raggiungibile con un semplice dimezzamento dei parlamentari – se si pensa che solo per fare il referendum sulle trivelle in un giorno diverso dalle elezioni amministrative – all’evidente scopo di non agevolare il raggiungimento del quorum – sono stati spesi 300 milioni.
D’altro canto, anche la Camera non se la passerà bene. Grazie alla combinazione con la legge elettorale “Italicum”, chi vince piglia tutto: una maggioranza alterata da un premio, che si vuole giustificare in nome della governabilità, incide sulla rappresentatività del Parlamento e sposta l’asse istituzionale a favore del Governo. Il controllo pieno del governo sulla maggioranza della Camera si manifesterà ancor più nell’esercizio dell’attività legislativa. Già ora esso ha la possibilità di utilizzare i decreti-legge e i voti di fiducia anche su materie non rientranti nel suo programma (come di recente sulle unioni civili). È agevolato, inoltre, da forzature regolamentari come il contingentamento dei tempi di discussione e i maxiemendamenti o emendamenti–canguro, che vanificano l’obbligo costituzionale di approvare le leggi articolo per articolo. La riforma aggiunge ora il voto con priorità e a data certa (70 giorni) sui disegni di legge dichiarati, insindacabilmente, dal governo come “essenziali per l’attuazione del suo programma”. La Camera diventerà, in sostanza, prevalentemente un organo di ratifica dell’operato del governo.
Le Regioni
Questo governerà grazie a una clausola di supremazia anche le Regioni. Lo Stato, infatti, avrà una competenza esclusiva su equivoche “disposizioni generali e comuni” in una serie di materie (governo del territorio, istruzione, salute, politiche sociali, sicurezza alimentare, attività culturali e turismo). Inoltre, su proposta del Governo, la Camera può intervenire anche in tutte le altre materie quando ravvisi esigenze di tutela non solo dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ma anche di un asserito “interesse nazionale”. Le Regioni vengono ridotte così a poco più che organi integrativi dello Stato, se non proprio amministrativi (e il fatto che negli anni questa deriva sia stata realizzata dalle stesse Regioni non pare una buona ragione per ridurne anche formalmente il potere legislativo). Vengono fatte salve, però, quelle a statuto speciale: e che la Sicilia o il Friuli debbano continuare a essere privilegiate rispetto alla Puglia o alla Lombardia appare davvero sconcertante.
In sintesi…
Per riepilogare: a) la funzione legislativa si sposta in una serie di materie nominate, e anche nelle altre tutte le volte che il Governo ravvisi un interesse nazionale, dalle periferie al centro; b) qui, nella stragrande maggioranza dei casi, la competenza esclusiva a legiferare è della sola Camera, la cui maggioranza – grazie al sistema elettorale fortemente maggioritario – è della lista governativa; c) perciò a gestire gli equilibri, cominciando dall’ordine del giorno, è il Governo e, in particolare, il suo capo, leader della lista di maggioranza. Questa vertiginosa concentrazione di potere – una forma di premierato assoluto – sarà favorita, poi, dall’indebolimento degli attuali contrappesi. La diminuzione del numero dei parlamentari determinerà, infatti, un forte abbassamento dei quorum previsti per l’elezione del Presidente della Repubblica e dei componenti del CSM (da 570 voti a 438, destinati ad abbassarsi se calcolati sui soli votanti) e dei giudici costituzionali (da 570 ad appena 60 per quelli eletti dal Senato e a 378 per quelli della Camera, praticamente alla portata dei 340 voti della lista di maggioranza).
Molti di questi difetti vengono riconosciuti dagli stessi sostenitori della riforma, che tuttavia li minimizzano come semplici limiti o imperfezioni tecniche e ipotizzano, come hanno fatto la stessa ministra proponente e l’ex presidente Napolitano, successive modifiche. Intanto, si tratta di vere e proprie disfunzioni, come s’è visto. Ma, in ogni caso, non v’è motivo o necessità di accettare un prodotto, che già si sa essere difettoso, solo perché ne va del futuro del governo. Non si può confondere il piano della Costituzione con quello della politica di governo e trasformare il referendum in un plebiscito a suo favore o contro. D’altro canto, la previsione di modifiche, nel momento stesso di approvarla, riduce la Costituzione a una legge tra le altre, transitoria e priva di “superiorità – come disse Aldo Moro all’Assemblea Costituente – di fronte alle effimere maggioranze parlamentari”. Una Costituzione non più come “legge superiore”, ma destinata a rifacimenti continui a colpi di maggioranza, non è più la legge fondamentale, ma una legge qualsiasi in mano alla maggioranza governativa. “Abbiamo i numeri”, hanno detto i suoi sostenitori. Ma allora è una Costituzione dei vincitori: chi vince le elezioni diventa proprietario delle istituzioni. E, anziché avviare trasformazioni reali della società, dà sempre più potere a chi deve governare, sottraendolo alle istituzioni rappresentative. È la “mitologia sostitutiva” che Giuseppe Dossetti denunciò già vent’anni fa e ispirò i “Comitati per la Costituzione”.
Note
Nicola Colaianni è magistrato, già membro della Suprema Corte di Cassazione e deputato nella X legislatura, dove è stato membro della Commissione permanente Giustizia, della Commissione bicamerale sulla revisione del codice di procedura penale e della Commissione bicamerale sul terrorismo e le stragi.È professore ordinario di Diritto ecclesiastico all’Università di Bari