Comunicazione di guerra
Ma perché il confronto tra Hillary Clinton e Donald Trump deve essere necessariamente uno “scontro” e un “duello”? Le critiche di Renzi alla sindaca Raggi sono realmente un “attacco”? Davvero un partito decide di “dare battaglia” ad un altro? E così quella dei migranti è una “invasione”, in talune dichiarazioni televisive si consumano “vendette”, un giornalista “bombarda” di critiche un esponente politico, un organismo di controllo “dichiara guerra” alla corruzione o all’evasione fiscale. È questo il linguaggio corrente dell’informazione. Un linguaggio bellico. Come se non ci fossero altre metafore e altri riferimenti, come se non si potesse più serenamente parlare di dialogo, confronto, critica, discussione (anche vivace), contraddittorio… Per non parlare del linguaggio violento che circola a piede libero sui social network! E non è un’osservazione per “anime belle”. Non è marginale rispetto ai problemi seri e gravi che ci troviamo ad affrontare quotidianamente. Sono persuaso che proprio il nostro modo di esprimerci e quello della rete della comunicazione in cui siamo immersi creano mentalità, alterano i nostri stati d’animo, costruiscono un certo tipo di cultura, ci fanno familiarizzare con la guerra e con la violenza fino a rendercela di casa. La costruzione della pace passa anche di qui e forse uno sforzo maggiore soprattutto da parte di chi ha responsabilità maggiori nel mondo dell’informazione e della comunicazione sarebbe un contributo essenziale. Chissà se un giorno si potrà pervenire alla formulazione di un codice etico professionale che dichiari il disarmo unilaterale del linguaggio!