Le parole della guerra
Dopo il Mosaico dei giorni sul linguaggio violento della politica e dell’informazione, l’amico Azzolino mi fa notare il paradosso per il quale mentre il linguaggio dell’informazione si militarizza, si smilitarizza quello militare. Bombe intelligenti, guerre chirurgiche, missioni umanitarie, effetti collaterali, ingerenze umanitarie… Un linguaggio tanto pulito, neutrale, accattivante, rassicurante per permettere alle nostre coscienze di rimboccarci le coperte di sonni sereni e allontanarci dalle immagini della distruzione reale e concreta della guerra. D’altra parte ormai da tanto tempo le “nostre” guerre vengono presentate in televisione come un video-game con obiettivi inquadrati dallo schermo di un drone o di un aereo da combattimento e da un fumo che li neutralizza quasi innocuamente. A creare distruzione e morte sono solo e sempre le guerre degli altri. Forse abbiamo bisogno di analizzare più in profondità anche il linguaggio della macchina bellica le cui prime armi restano sempre quelle della propaganda. Per fare la guerra noi abbiamo sempre puntualmente bisogno di un nobile motivo, di un nemico crudele e di armi più efficienti. Perché la guerra ha sempre bisogno del consenso. Anche quando viene decisa e costruita da poche menti raffinate riunite nella stanza asettica di un ministero della difesa o di una grande impresa multinazionale che ha da realizzare alti profitti. Li chiamano “interessi nazionali”.