TERRITORI

Bosnia 20 anni dopo

Venti anni dopo la guerra.
Racconto di un’esperienza di turismo responsabile.
Pio Castagna e Lucia De Sanctis

Quando siamo partiti per la Bosnia quest’estate, forse avevamo solo in testa i ricordi e le emozioni di 20 anni fa, quando la televisione trasmetteva i bombardamenti di Sarajevo, la partenza dei caccia-bombardieri dalle basi Nato italiane e tante atrocità che purtroppo tutte le guerre e i conflitti portano con sé. Poi, quando i riflettori si spengono su luoghi più o meno lontani da noi, sembra che tutto sia passato, invece anche lì la storia continua e porta con sé il seme di eventi futuri.

Questo viaggio ci ha dato l’opportunità di rileggere la storia passata, ma anche di vedere la situazione attuale e di capire la realtà molto complessa. 

Dopo la morte di Tito e la caduta del muro di Berlino, la ex Jugoslavia ha attraversato una transizione importante e ha cercato di realizzare l’autonomia dei popoli con un referendum per l’indipendenza, come è accaduto in Slovenia, in Croazia, ecc.. I risultati del referendum hanno portato con loro l’intervento militare jugoslavo, deciso a non permettere che territori abitati da serbi fossero smembrati dalla Federazione e slegati dalla “madrepatria serba”. La teoria nazionalista serba diventa così ideologia portante di tutta la Jugoslavia e delle sue guerre e sarà rappresentata da quel Milosevic che fu poi condannato dal Tribunale Penale Internazionale dell’AIA per crimini contro l’umanità.

Il generale obiettore 

A Sarajevo è eloquente e significativa l’esperienza del generale serbo Jovan Divjak, capo della difesa territoriale della città, così come la struttura strategica e organizzativa dell’allora esercito jugoslavo prevedeva. 

Divjak, nonostante le sue origini serbe, si è sempre schierato accanto ai bosniaci e contro la guerra. Non solo non ha seguito l’esempio di altri suoi colleghi serbi che rientrarono in madrepatria non appena la situazione a Sarajevo precipitò, ma, nonostante fosse considerato un traditore della causa serba, prese coscienza dei disastri che quella guerra avrebbe comportato per la popolazione della città e si schierò dalla loro parte o meglio, come lui stesso affermava “dalla parte degli ultimi, poiché Sarajevo è stata difesa dagli uomini, ma salvata dalle donne che, con la loro azione di accudimento dei figli, della quotidianità e del mantenimento della cultura e dell’informazione, nonostante la guerra, ha permesso di mantenere umana la città”. 

Possiamo definire la sua vicenda un caso di disobbedienza pure in armi? 

Certo è che il suo impegno profuso nella costituzione, subito dopo la guerra, dell’associazione “L’istruzione costruisce la Bosnia” – finalizzata ad aiutare gli orfani di guerra, senza distinzione di etnia, con aiuti psicologici e materiali – suggella l’idea che gli orrori della guerra possano scalfire l’animo anche del più blasonato dei generali. 

Mostar

Il cammino poi ci ha portato a Mostar, dove il simbolo del ponte di pietra del XVI secolo distrutto nel novembre 1993 da un mortaio croato e ricostruito nel 2004, non rappresenta ancora il processo di riconciliazione tra le due popolazioni che si sono fatte la guerra: croati bosniaci e bosniaci musulmani (bognacchi). Qui, nonostante il turismo ci mostri una città viva e senza evidenti problemi, la rappresentante dell’Agenzia della democrazia locale di Mostar (nata nel 2004 e come le altre agenzie presenti nella ex Jugoslavia, formata da cittadini e istituzioni al fine di stimolare il processo democratico e di convivenza, nonché di rispetto dei diritti umani attraverso l’esercizio della cittadinanza attiva) ci racconta che la divisione tra le due etnie è ancora molto forte. Uffici postali, scuole, negozi: tutti diversi e separati. Questa divisione fotografa la situazione socio-culturale in cui attualmente vive la Bosnia: dietro una pace di facciata, si celano ancora divisioni etniche e religiose. La guerra non ha rimosso le cause per cui è stata scatenata. A ciò si aggiunga la situazione politica in pieno stallo poiché dal 2008 non ci son più state elezioni amministrative. Una situazione politica e amministrativa anomala, difficile, con una sentenza del 2010 della Corte Costituzionale bosniaca che ha stabilito che lo statuto elettorale della principale città d’Erzegovina è contrario alla Costituzione, con due partiti – croato e musulmano – che non trovano accordo per un nuovo statuto… Una città divisa oggi in due municipalità distinte, con un tasso di disoccupazione giovanile altissimo e poche opportunità di sviluppo legate per lo più al turismo e all’edilizia. 

Ma il lavoro di base dell’associazionismo locale prosegue e tanti giovani, nonostante tutto, sperano e vogliono una realtà diversa: ci fanno conoscere il progetto di una scuola di musica, ci raccontano di iniziative che stanno portando avanti in ambito ambientale, con il coinvolgimento di scuole, di altri giovani, per creare una città “pensata” per loro e così via. 

Arrivando a Srebrenica l’atmosfera del gruppo si fa più mesta, come in un naturale cambio di passo quando ci si avvicina a luoghi di dolore profondo e inimmaginabile, come è stata la strage di Srebenica. Ad accoglierci vi sono le donne dell’associazione “Sara Srebrenica” dove la presidente Valentina, serba di Srebeniza, ci racconta come le donne si ritrovino oltre la propria appartenenza unite nella volontà di ricostruire relazioni, interessi e impegni per una società più giusta e umana. 

Per il gruppo è stata molto bella l’esperienza dell’ospitalità comunitaria presso alcune famiglie locali, grazie a un progetto con la Fondazione Alexander Langer di Bolzano. 

Una parola meritano anche momenti più forti legati alla visita del cimitero di Srebenica e alla zona della ex-fabbrica di pile dove si radunavano uomini, donne e bambini bosniaci musulmani, anche di zone vicine, in quanto la città era stata dichiarata zona protetta dall’Onu. 

Nel luglio 1995, però, l’esercito serbo-bosniaco entrò in città e gli uomini dai 14 ai 78 anni furono separati dalle donne, dai bambini e dagli anziani, uccisi e sepolti in fosse comuni. Si parla di oltre 8.400 vittime, ma le associazioni degli scomparsi ne contano almeno 10.000. Qui abbiamo potuto sentire la cattiveria, la follia dell’animo umano e la mente insana di persone come Radovan Karadzic e Ratko Mladic, ma anche l’inutilità e la connivenza di forze come l’Onu che possiamo ben dire quasi complice di questo crimine (violenze, stupri, favori in cambio di cibo... testimoniate da “vignette” sulle pareti della fatiscente struttura, ma che in parte sta per essere ristrutturata proprio per non perdere la “memoria storica”). Questa complicità è tutta raffigurata nelle pareti e denota i limiti di questa Onu necessaria, complessa ma difficile e talora incoerente. 

Le città che abbiamo visitato sono attraversate da ponti, simboli di collegamento, incontri, congiunzioni di popoli diversi e ci hanno fatto pensare alla convivialità delle differenze di cui don Tonino si era fatto portabandiera a Sarajevo nel dicembre 1992. Una convivialità delle differenze il cui processo, ancora oggi, rimane in divenire, non solo in Bosnia ma in tanti parti di questo mondo.  

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