ULTIMA TESSERA

A tutto il popolo colombiano

La lunga storia del Nobel per la pace conferito a Juan Manuel Santos. Un premio che accende i riflettori su uno dei conflitti più violenti della storia recente dell’America Latina.
Tonio Dell'Olio

Heikki Holmas è un parlamentare norvegese che lo scorso anno aveva proposto al Nobel della pace i quattro tunisini che poi se lo sono aggiudicato. Ma la Norvegia ha svolto un ruolo di primo piano nel processo di pace in Colombia operando nella difficile mediazione tra gli insurgentes delle FARC e il Governo e ben conosce il travagliato panorama politico e il carico umano di sofferenze di quel Paese. Ebbene nello scorso mese di febbraio lo stesso esponente del Parlamento nordeuropeo aveva proposto al Nobel non solo Juan Manuel Santos, Presidente della Repubblica, ma ben sette rappresentanti di altrettante realtà colombiane che hanno operato per la pace in questi difficili anni talvolta pagando puntualmente un prezzo molto alto. Tra i candidati c’erano sicuramente i due protagonisti rappresentanti del Governo e della guerriglia, ma anche Constanza Turbay e Leyner Palacios, due familiari delle vittime dei massacri operati nel tempo dalla formazione guerrigliera, Jineth Bendoya, una giornalista torturata e stuprata dalle AUC (Autodefensas Unidas de Colombia), il gruppo dei paramilitari vera terza forza armata in campo, José Antequera Guzman, l’orfano di uno dei massimi rappresentanti della Union Patriotica formazione politica annientata da una serie infinita di omicidi e Luz Marina Bernal che è leader delle Madri di Soacha, associazione che raccoglie le madri dei giovani “falsos positivos” sequestrati e uccisi da elementi dell’esercito colombiano. E, in effetti, sarebbe stato più coerente riconoscere il Nobel a tutte queste persone insieme, dal momento che la motivazione ufficiale dell’alto riconoscimento al Presidente della Repubblica in carica recita: “per i suoi risoluti sforzi nel far cessare la guerra civile nel suo Paese, durata più di 50 anni, una guerra costata la vita di almeno 220mila colombiani e causato sei milioni di sfollati”. Poi la motivazione prosegue: il premio, inoltre, “è un tributo anche alla popolazione colombiana, che non ha rinunciato a una pace giusta, e a tutte le parti che hanno contribuito al processo di pace”. Difficile dire quale ragione abbia indotto i cinque saggi a optare per il solo Juan Manuel Santos. Sta di fatto che una più larga rappresentanza diretta delle vittime del conflitto avrebbe mostrato con maggiore evidenza al mondo intero il tributo pagato da tante cittadine e cittadini colombiani in questi lunghi anni di violenza inaudita. Anche i commenti del giorno dopo si sono concentrati quasi esclusivamente sul fatto che il conferimento il prestigioso premio avvenisse proprio all’indomani del deludente passaggio referendario che, contro ogni previsione, ha visto prevalere sia pure di poco il rifiuto da parte degli elettori del faticoso accordo di pace. Giustamente il comitato del Nobel ha fatto notare che il NO era in opposizione alle disposizioni contenute nell’accordo e non verso la pace. Le parti più controverse erano quelle riferite al reinserimento dei combattenti nella società e nella politica per cui si prevedevano meccanismi di amnistia, perseguimento dei soli reati di “lesa umanità” e una riserva di cinque seggi nel Senato per una rappresentanza delle ormai ex FARC. In questo senso se l’assegnazione del Nobel a Santos è stato visto come un riconoscimento agli sforzi compiuti per raggiungere l’obiettivo della pace, non sono mancate le voci critiche. 

I falsos poisitivos

In particolare si ricorda il dramma dei falsos positivos che ha toccato tante famiglie. Durante l’epoca del governo liberista e conservatore di Alvaro Uribe, Juan Manuel Santos ministro della Difesa, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani che da sempre ha svolto un ruolo di primo piano nel far luce sulla sistematica violazione dei diritti in Colombia, rivelò che a seguito di una circolare ministeriale che garantiva premi, scatti di carriera e incentivi di vario genere ai militari colombiani che uccidevano o catturavano guerriglieri, era avvenuto che giovani inconsapevoli fossero stati assassinati da membri dell’esercito e fatti passare per membri delle FARC. Pur nell’incertezza di riuscire a ottenere un numero preciso, si calcola che le vittime di questo sistema perverso non siano stati meno di 5.000. Grazie alle indagini svolte dall’Alto Commissariato ONU e di organismi come il CAJAR, un collettivo di Avvocati per i diritti umani che hanno svolto vere e proprie investigazioni adottando anche strumenti di medicina legale, a oggi i responsabili di quelle esecuzioni extragiudiziali sono stati assicurati alla giustizia. Resta il fatto che per lungo tempo il governo allora in carica negò l’evidenza dei fatti e, quando fu costretto ad ammetterli dalle risultanze investigative e dall’ammissione di alcuni militari “pentiti”, parlò di mele marce e non di un vero e proprio sistema che si avvaleva di complicità e silenzi, di coperture e connivenze. Particolarmente decisiva fu la testimonianza di un militare che aveva partecipato a quelle operazioni e che scopre a un certo punto che anche suo padre era stato ucciso e presentato come guerrigliero ucciso in combattimento. Ma presero coraggio anche le madri come quelle del popoloso quanto povero quartiere di Soacha che raccontavano di come due distinti signori dall’aria perbene e rassicurante si erano presentati nei luoghi frequentati dai loro figli promettendo posti di lavoro in aziende agricole e avessero convinto i giovani a seguirli. Tutti i giovani che avevano accettato quella proposta in seguito furono presentati dall’esercito colombiano come “terroristi” uccisi nel corso di operazioni belliche. Quello di Fair Leonardo Porras, figlio di Luz Marina Bernal è scuramente il caso più eclatante e che ha scosso l’opinione pubblica internazionale in quanto si trattava di un giovane affetto da una disabilità psico-fisica e che in seguito è stato presentato da militari come uno dei capi di un battaglione delle FARC. Solo l’ostinazione e il coraggio della madre ha fatto in modo che il caso venisse alla luce e che si aprisse un’accurata indagine cui nemmeno la magistratura più compromessa col potere politico ha potuto sottrarsi. 

Per queste ragioni è lo stesso Juan Manuel Santos, che peraltro non ha mai ricevuto una sola delegazione dei familiari di quei giovani ingannati e uccisi, ad affermare che il Nobel debba intendersi come un riconoscimento conferito a tutto il popolo colombiano di cui egli è soltanto il rappresentante pro tempore. Nello stesso tempo – bisogna riconoscerlo – Santos ha creduto nel processo di pace e lo ha perseguito fin dal primo momento, quando erano in pochissimi a scommettere su un suo esito positivo e con grande determinazione ha fatto in modo che si creassero le condizioni per giungere alla firma dell’accordo. In questo senso – e solo in questo senso – questo Nobel che accende i riflettori sul conflitto più lungo e più violento della storia recente dell’America Latina, deve essere accolto come l’appello della comunità mondiale a risolvere i conflitti nel dialogo abbandonando gli utensili obsoleti della guerra.

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