NONVIOLENZA

Dalla “non violenza” alla “nonviolenza”

Da Gandhi a Capitini, la costruzione della proposta nonviolenta contemporanea.
Giuseppe Moscati (Presidente della Fondazione Centro Studi Aldo Capitini https://fondazionealdocapitini.wordpress.com/)

Racconta Gandhi della difficoltà incontrata, all’interno del movimento della non violenza di cui era stato il principale ideatore e ispiratore, nell’individuare un termine che potesse dare conto di quella loro istanza così significativa e originale. Siamo all’indomani della grande adunanza degli indiani immigrati in Sudafrica dell’11 settembre del 1906, tenuta nel Vecchio Teatro Imperiale di Johannesburg e convocata proprio dall’avvocato indiano allora trentasettenne. 

Quella moltitudine popolare “in cammino” prendeva coscienza della propria forza e, al contempo, avvertiva prepotentemente l’esigenza di nominare la sua campagna di lotta e di disobbedienza civile.

Satyagraha

Non sapendo ancora quale nome dare al movimento, Gandhi ricorreva al termine “resistenza passiva”, ma confessando di non comprendere appieno tutte le implicazioni che esso poteva generare. “Sapevo soltanto che un nuovo principio aveva preso la luce – si legge in Satyagraha in South Africa (tradotto, per i meritorî ‘Quaderni Satyāgraha’ del Centro Gandhi di Pisa, da Maria Serena Marchesi). Mentre la lotta progrediva, l’espressione “resistenza passiva” dava adito a confusione e sembrava vergognoso permettere che questa grande lotta venisse conosciuta soltanto con un nome inglese” (M.K. Gandhi, Una guerra senza violenza. La nascita della nonviolenza moderna [1950], a cura di R. Altieri, “Quaderni Satyāgraha – la forza della verità”, GandhiEdizioni – Libreria Editrice Fiorentina, Firenze 2009² [I ed. 2005], p. 103). E considerando che tale espressione in inglese, ovvero nella lingua del colonizzatore, era di fatto inaccettabile per la comunità indiana protagonista di quell’enorme cambiamento in atto, venne indetto un concorso pubblicizzato sulle pagine dell’Indian Opinion (testata che sul tema aveva avviato un dibattito) con un piccolo premio per il lettore che avesse proposto “la migliore designazione per la nostra lotta”. Tra i numerosi suggerimenti giunti in redazione, quello che si fece apprezzare maggiormente fu sadagraha, vale a dire “fermezza in una buona causa”, termine proposto da Shri Maganlal Gandhi.

Sadagraha, tuttavia, non rendeva nella sua completezza l’idea che la lotta del movimento rappresentava e il giovane avvocato approdò appunto a satyagraha, dove satya – verità – richiama direttamente l’amore e graha – fermezza – implica la forza. Ecco, dunque, la genesi di ciò che è indicato come satyagraha, termine equivalente all’espressione “la Forza che nasce dalla Verità e dall’Amore” e adottato per designare lo stesso movimento indiano della non violenza. Della non violenza essenzialmente perché i satyagrahi da subito non ricorrono all’uso della forza se non della forza nel senso di cui abbiamo detto e che corrisponde a una sorta di progenitrice della forza insita nella “persuasione nonviolenta” di Aldo Capitini. Egli, tra l’altro ideatore della Marcia della pace e della fratellanza tra i popoli Perugia-Assisi, guardando a Gandhi, volge l’attenzione, peraltro, anche al Carlo Michelstaedter della “persuasione” contrapposta alla “rettorica”.

Siamo ben al di là del significato della generica espressione “resistenza passiva”, che ora ci appare inevitabilmente quanto estremamente povero se non altro per l’assenza di legami con l’istanza dell’amore e per la non totale rinuncia all’uso delle armi.

Mi pare interessante andare a vedere come Aldo Capitini valuti – non senza ironia – l’Importanza di Gandhi (titolo di uno dei 23 scritti confluiti nella raccolta del 1949 Italia nonviolenta) e la percezione della figura del filosofo indiano nel nostro Paese: “Qualcuno in Italia crede che Gandhi sia un fachiro. Qualche altro sorride alle sue stranezze, alla veste, al telaio, alla capra, al digiuno. E non pensa che la veste è quella degl’‘intoccabili’, dei milioni e milioni di esseri umani che non possono essere toccati senza purificarsi, da Gandhi assunta deliberatamente. Non pensa che il voto di lavorare ogni giorno mezz’ora al telaio significa dare l’esempio della soluzione del problema della miseria dei rurali indiani […] e significa anche il principio di Gandhi di dare lavoro invece che regali. Non pensa al valore del vegetarianesimo come affetto agli esseri subumani che ci volgono quotidianamente un muto appello, e non pensa che il digiuno può essere un voto, una rinuncia per un valore […]” (A. Capitini, Importanza di Gandhi, in Id., Italia nonviolenta [1949], Fondazione Centro studi Aldo Capitini, Perugia 1981, p. 85, NdA).

Da queste “stranezze” gandhiane evidenziate da Capitini, a sua volta da molti considerato bislacco, emerge un profilo del Mahatma come di un energico educatore alla lotta politica quale opposizione ad ogni forma di violenza. Qui Capitini, lui stesso educatore alla lotta politica, opera: un’aggiunta valoriale che libera l’opposizione alla guerra e alla violenza in genere facendola evolvere in atteggiamento positivo, in proposta nonviolenta. Non a caso matura la convinzione che il termine nonviolenza vada scritto tutto attaccato: allo stesso modo in cui la pace non è e non può ridursi a intermezzo tra due guerre, a tregua ovvero a mera assenza di atti belligeranti, la nonviolenza non è e non può ridursi a sospensione della violenza, a obiezione ovvero a resistenza ad atti violenti. 

Religione aperta

Il contesto con cui abbiamo a che fare, bisogna ribadirlo, è insieme etico, politico e religioso nel senso della religione aperta di Capitini (l’opera omonima, edita da Laterza nel 1955, sarebbe stata messa all’Indice da Pio XII): direi libero-religioso. In aperta critica verso le posizioni di un Machiavelli o di un certo realismo politico, assieme a quello gandhiano Capitini rilegge anche il messaggio mazziniano e afferma senza mezzi termini l’equivalenza di mezzi e fini per far comprendere come un fine non può essere considerato nobile se nobili non sono i mezzi scelti per perseguirlo e metterlo in atto. L’esempio dell’educazione alla nonviolenza stessa, fine nobilissimo, è assai indicativo: “Non si può insegnare la nonviolenza con l’odio e le fucilate. Se io voglio che tu agisca da persuaso interiormente, bisogna che io prima sia in tutto persuaso e non retore” (Aldo Capitini, Il problema religioso attuale, in Id., Le ragioni della nonviolenza. Antologia degli scritti, a cura di M. Martini, Ets, Pisa 2004 [rist. 2007, nuova ediz. 2016], p. 63).

La protesta e il dissenso del persuaso hanno per questo da attivarsi, eticamente, politicamente e religiosamente, per una nuova costruzione e una nuova socialità perché la scelta della nonviolenza non rimanga definibile solo a partire dal suo contrario. È muovendo da questo intento di fondo che Capitini ragiona sull’idea di persuasione nonviolenta come un orizzonte di senso in cui convergano e siano rivisitate il gandhiano satyagraha, che abbiamo visto essere sostanzialmente “forza della verità e dell’amore”, e l’ahimsa, una “non violenza” quale radicale disapprovazione di ogni violenza che si traduce in in-nocente rigetto di attuare/permettere il male.

In un senso positivo e attivo nonviolenza è, necessariamente, apertura anche alla libertà e alla condizione esistenziale di chi invece è implicato per un verso o per l’altro in dinamiche violente. Ecco la legge morale, per richiamare un’eco kantiana, della compresenza, che per Capitini è un abbracciare coralmente, omnicraticamente e dal basso tutti gli esseri, quelli non umani compresi.  

Per il filosofo umbro è decisivo contemplare anche l’eventualità del sacrificio personale per affermare in chiave finalmente positiva la strategia e la prassi nonviolente. La costruzione della proposta nonviolenta passa allora dalla liberazione della realtà e solo l’“unità amore” della realtà liberata può far sì che la violenza, la morte, l’esclusione e le diversificate forme di sofferenza si trasformino in qualcosa di migliore. Siamo aperti a questa trasformazione possibile.

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