Alberto L'Abate
E sì, con Alberto L'Abate la nonviolenza italiana perde un polmone. Perché ben oltre il suo rigoroso impegno di studio e insegnamento universitario di sociologia dell'organizzazione, Alberto si è lasciato letteralmente assorbire da mille incontri, convegni, iniziative, ... abbracci in giro per l'Italia. Distribuiva suggerimenti, distillava analisi, confrontava ipotesi. Perché la nonviolenza non è mai improvvisazione ma scienza, frutto di studio e sperimentazione, di lettura storica degli eventi e di esperienze di persone e di popoli. E a lui va riconosciuta pienamente quella capacità rara di unire insieme teoria e pratica, studio e militanza. Come quando tutti erano intenti a cercare di risolvere il drammatico groviglio bosniaco e lui - incomprensibilmente per i più - si dedicò corpo e anima al Kossovo fino a ottenere un distacco dall'Università di Firenze e aprire un'ambasciata di pace a Pristina. Perché quello era un laboratorio diffuso di nonviolenza attiva e - l'avessero ascoltato anche i politici - si sarebbe risparmiato tanta sofferenza, sangue, distruzione e morti. In quegli inspiegabili cortocircuiti della vita avviene anche che Alberto sia morto il 19 ottobre, lo stesso giorno in cui nel 1968 moriva Aldo Capitini, di cui Alberto L'Abate era stato amico e collaboratore.