Come in un lager
Ieri sera due amici immigrati in attesa di riconoscimento di asilo dopo più di un anno di convivenza presso la Cittadella di Assisi, per la prima volta, mi hanno spontaneamente raccontato delle violenze subite in Libia. Mi hanno dapprima mostrato un video registrato nei giorni scorsi e inviato loro sullo smartphone dove vengono mostrate le torture cui viene sottoposto un giovane sudanese da parte della polizia libica e poi hanno iniziato a parlarmi di quanto era successo a loro e ai loro amici. Se evito di entrare qui nel dettaglio è solo perché – credetemi – si tratta di una galleria degli orrori. La mia domanda era pressoché scontata: “Perché me ne parlate solo ora?”, “Perché avete taciuto tutto questo tempo?” e la loro risposta mi ha fatto scorrere un brivido: “Perché voi non potete capire e forse nemmeno ci credete” e, inoltre: “Con quali parole potevamo raccontare queste cose?”. Insomma ho sentito ripetere espressioni, considerazioni, riflessioni che tante volte ho ascoltato dai sopravvissuti dei campi di concentramento nazisti. Sopravvissuti che si colpevolizzavano per avercela fatta, che d'estate si coprivano il numero di matricola tatuato sul braccio con un cerotto, che hanno taciuto per anni... E noi a sentirci montare dentro una rabbia di condanna verso gli autori e la fonte ideologica di tutto quel male e noi, generazione postuma che non comprendevamo il silenzio e l'indifferenza dei più. Ma oggi tocca a noi. Quanto è colpevole il nostro silenzio di fronte a una legge che, per salvaguardare il nostro preteso benessere, condanna a tortura, se non a morte, migliaia di persone? Come ci giudicheranno le generazioni future? Come giustificheremo il nostro silenzio?