La miglior risposta ai ragazzi difficili è farli sentire amati
Incollo di seguito un articolo di Marco Lodoli che sottoscrivo per intero.
Ho l’impressione che da parecchio tempo nelle scuole dei quartieri più difficili si sia spezzato quel principio di autorità per il quale chi sta in cattedra merita rispetto e obbedienza incondizionati. Il professore non viene più visto come la figura che rappresenta e trasmette la cultura e la conoscenza, e che per questo deve essere ascoltato in silenzio, perché lui sa cosa fare e cosa dire. Oggi il professore deve guadagnarsi giorno dopo giorno, ora dopo ora, stima e attenzione. Deve conquistare la sua platea ogni volta da capo, attivare tutti gli strumenti di seduzione, essere brillante, profondo, accattivante, altrimenti si ritrova a sproloquiare nel vuoto o nel caos. E nonostante l’impegno, può accadere di ritrovarsi davanti uno studente che dice: non mi importa niente di quello che sta spiegando, io esco, vado al bagno, vado a fumare una sigaretta. È una sfida, una provocazione, un’offesa difficile da sopportare. Capita anche a me. È come se questi ragazzi cercassero lo scontro, senza paura di niente. Non li ferma di certo una nota sul registro o qualche altra punizione. Prenderli di petto è inutile. Urlare, battere i pugni sulla cattedra non serve. Sono pronti ad abbandonare la scuola in un attimo, a ritirarsi nella desolazione delle loro camerette, in un’orgogliosa rinuncia a tutto quello che possono ricevere di buono. «Vai a posto, fammi finire il discorso, esci tra dieci minuti». E allora accade che lo studente sbuffando torna al banco e con una ostentazione teatrale si mette le cuffie nelle orecchie: parla pure, finisci la tua lezione di merda, tanto io non ti ascolto. Sono atteggiamenti che fanno bollire il sangue, viene davvero la voglia di gridare fino a sgolarsi, di vomitare minacce. Ma in fondo questo è ciò che cercano gli studenti più inquieti: sentirsi ancora una volta immersi in un clima ostile, sentirsi brutti, sporchi e cattivi, perché questa è la logica che impera nella piazza sotto casa e spesso anche in famiglia. A ogni parola feroce sono abituati a rispondere con parole ancora più feroci. È come se avessero interiorizzato definitivamente un’etica guerriera. Il mondo ha preso a calci i loro genitori, ha espulso i fratelli maggiori, ha riso in faccia a ogni minima speranza, e loro lo ripagano con la stessa moneta. La scuola in qualche modo rappresenta quella ufficialità che ha sospinto sui bordi le loro famiglie, i loro amici, la loro vita. E allora escono dalla classe sbattendo la porta, perché la porta gli è stata già sbattuta in faccia centinaia di volte. Chi pensa di conquistarli ripetendo la solita lezione fatta bene su Foscolo o D’Annunzio si sbaglia. Quelle chiacchiere possono funzionare con chi ha già la strada spianata verso università europee e treni di prima classe. Chi si sente fuori non si fa certo sedurre da un sonetto o da un integrale spiegato come si deve. E allora che fare? Che fare con lo studente sprofondato nel telefonino, con la ragazza che ti dice: «A professò oggi me sembri proprio uno schifo», con l’altro che ti ride in faccia e che forse in faccia vorrebbe sputarti? Sospenderli per tre giorni, avvisare genitori inesistenti dello scorretto comportamento dei loro figli, allungare colonne di votacci sul registro elettronico? Credo che l’unica strada sia quella di farli sentire persone preziose, di far capire loro che la scuola è forse l’unico posto in cui sono considerati, riconosciuti, amati. Allo studente con le cuffiette maleducate, il giorno dopo, ho regalato una copia di Martin Eden di Jack London. «La vita è dura, ma ognuno di noi deve provare a viverla nel migliore dei modi», ho scritto sulla prima pagina. Lui ha preso il libro tra le mani con un certo stupore, e poi ha sorriso per la prima volta. (da “la Repubblica” del 15 febbraio 2018)