Un passo più in là
Di fronte alle coste di Lampedusa le parole annaspano affannate e stanche perché sembrano aver esaurito la grammatica del buon senso e della solidarietà. Si accasciano dolenti insieme alle foto di altri sbarchi mancati, di tragedie consumate ad altre latitudini, di padre e figlia dalle speranze stroncate sulla riva di un fiume da una corrente impietosa e cattiva. Le parole non riescono più a farsi largo tra le lacrime e si sentono crocifisse all'inutilità o all'inadeguatezza. Forse non rimane che l'appello alle coscienze degli uomini dei governi dalle porte serrate e dai porti chiusi su una condizione che non hanno scelto e che, a stare dall'altra parte, del mare, del fiume, della storia, dell'umanità, è un passo. Ai Salvini, agli Orban, ai Trump varrebbe sussurrare in un orecchio che siamo tutti sulla stessa barca. Sembra strano e paradossale ma stiamo tutti sulla stessa barca e stiamo rischiando di affondare insieme perché la tempesta di cattiveria ci tira giù tutti senza distinzioni. E le coscienze delle maggioranze di chi abita le sponde del nord sono state forse sedate o addormentate? Si è forse appannato lo specchio che rifletteva la nostra condizione umana? Chi siamo noi per sostituirci a Dio e decidere della sorte di altri che sono nati soltanto un passo più in là di noi? Ma soprattutto quale codice ha stabilito che la miseria è un reato da condannare con la pena di morte?