4 marzo 2005: ricordando quei giorni…
Sono passati 15 anni da quel 4 marzo 2005. Verso sera arriva la notizia che Giuliana Sgrena, rapita in Iraq dall’inizio di Febbraio, è stata liberata! Pochi minuti dopo arriva l’altra notizia: Nicola Calipari, l’agente dei Servizi Segreti italiani, che era andato a prenderla, che aveva fatto di tutto per liberarla e la stava riportando a casa, è stato ucciso. Da chi? Dagli ‘americani’. Ma come? Gli americani sono nostri alleati, anche nella guerra in Iraq.
“Fuoco amico”. È anche il titolo del libro scritto dalla stessa Sgrena, un anno dopo, edito da Feltrinelli. Nicola Calipari è stato ucciso. Ha protetto con il suo corpo Giuliana, che è rimasta solo ferita. La storia forse un po’ la ricordiamo… Una pagina di storia vergognosa oltre che tragica.
Non ricordiamo però a sufficienza questo servitore dello stato, un uomo che io non ho mai conosciuto ma che ha dimostrato tutta la sua umanità insieme alla sua grande professionalità.
Ci fa ricordare che lo stato è la comunità dei cittadini. E c’è chi lo serve davvero con grande impegno e umanità. Ce lo ha confermato sempre Giuliana Sgrena nei racconti di quegli ultimi momenti: la paura, la liberazione con la voce rassicurante di Nicola, la corsa verso l’aeroporto di Baghdad, le telefonate in Italia, gli spari contro l’auto, il silenzio di Nicola che aveva sempre parlato fino a quel momento e poi …
A dire il vero io non conoscevo neanche Giuliana Sgrena. Leggevo i suoi pezzi su Il Manifesto. Una brava giornalista, che girava senza scorta. Non certo embedded. Una donna che voleva vedere e capire per poter raccontare e fare bene il suo mestiere.
Era stata tante volte in Iraq. Anch’io.
Forse per questo appena rapita alcuni amici mi hanno chiesto di andare a trovare i suoi genitori, Franco e Antonietta e il fratello Ivan a Masera (Vb) non lontano da casa mia. Perché in fondo ero un po’ iracheno anch’io, potevo essere di sostegno ai familiari. La mamma mi guardava cercando rassicurazioni. Come se io fossi uno che “sapeva” le cose o che “sapesse prevedere” cosa poteva succedere. Sono stato tante volte in quella casa, assediata per tutto il tempo da giornalisti di tutte le Tv, con furgoni e parabole per le dirette immancabili a ogni TG. Il 16 febbraio viene diffuso il video di Giuliana prigioniera. I genitori sono incollati alla Tv e una giornalista, Rai, non trova di meglio che inquadrare da vicino il volto dei due anziani genitori per avere lo scoop di qualche lacrima, di qualche espressione di dolore in diretta.
Ecco un primo esempio di non umanità. Giuliana si arrabbiò poi, nei mesi successivi con quella collega rifiutando ogni dichiarazione proprio per il comportamento tenuto con i suoi genitori.
Sì perché ricordare, dopo 15 anni, questa vicenda di liberazione e di morte, per me è soprattutto rivivere tante emozioni, ricordi di umanità o disumanità, episodi carichi di lacrime e di speranza. La sera del video famoso in casa Sgrena arrivano operatori, tecnici luci, audio, cavi, fari, di tutto di più. Poi la diretta con Canale 5, Rai 3 e l’immancabile Porta porta a porta su Rai 1.
Franco Sgrena mantiene una calma e una lucidità che mi colpisce, anche di fronte ad alcune domande non proprio umane di qualche giornalista. Poco prima ero stato invitato a fermarmi a cena con loro due. Dico di no, temendo di disturbare, poi ho accettato, mi sembrava più umano (a proposito mangiammo ravioli, di cui taccio la marca....)
Abbiamo visto e rivisto il video, abbiamo fatto anche qualche sorrisetto e insieme versato qualche lacrima. Giuliana la conobbi poi solo ai primi di giugno, quando venne a Masera. Fu lei a raccontarci che un suo carceriere una domenica andò da lei tutto sconvolto. Aveva visto in Tv Francesco Totti che era sceso in campo con la maglietta con la scritta “Giuliana libera”.
“Ma allora – le disse – sei una persona importante se anche Totti chiede la tua liberazione”. Sicuramente indossare quella maglietta è stato un grande gesto di umanità.
Mi è capitato anche di fare una diretta Tv (la prima e l’unica della mia vita…) il 19 gennaio pomeriggio quando a Roma c’era la grande manifestazione per Giuliana. Ero negli studi di VcoAzurratv.it, a Verbania. Ero emozionato ma sereno. Non sapevo come si faceva, ma era giusto, era umano farlo. E sono stati molti umani anche gli amici della Tv.
Dovevano arrivare le immagini a livello nazionale da Roma, ma non arrivava nulla. Io non sapevo più cosa dire. Intervistavo alcuni ospiti, politici locali. Mi ricordo che ho letto, lentamente, l’editoriale di Luigi Ciotti sul Manifesto. C’era un clima strano ma c’era una voglia di umanità, di speranza, di pace. In quei giorni accompagnai anche il vescovo di Novara, mons. Renato Corti, a visitare la famiglia. E Corti volle regalare alla mamma la corona del rosario che aveva appena ricevuto dalle mani di Giovanni Paolo II a cui aveva predicato gli esercizi. Non importava in quel momento verificare l’appartenenza alla Chiesa, la fede, la cattolicità. Era importante condividere un momento di profonda umanità. E Corti lo ha fatto. Con l’imbarazzo anche di dover “fronteggiare” l’invito di papà Franco – era l’ora di cena – di andare in cantina a prendere una bottiglia e un salamino. Chi conosce Corti può immaginare come ha vissuto quell’invito carico di umanità e accoglienza. Per lui, che non era proprio il tipo da bottiglia e salamino, è stato il panico. Mi guarda imbarazzato finché non troviamo la soluzione diplomatica: prendiamo un thè; per salamino e bottiglia aspettiamo la liberazione di Giuliana.
Ripensare al 4 marzo è anche ripensare a questi momenti.
Così come la mattina del 5 marzo – mentre il fratello Ivan (poi scomparso qualche anno dopo per un incidente in montagna) e la moglie volavano a Roma per accogliere Giuliana, ferita seriamente, in arrivo da Baghdad – andai a Milano a prendere il vescovo di Kirkuk Louis Sako e lo accompagnai a salutare i suoi genitori a Masera. Un iracheno, vescovo e ora patriarca caldeo di Baghdad che volle andare a salutare di persona, a chiedere scusa per quello che era successo alla loro figlia.
Louis Sako e Giuliana Sgrena sono amici. E la stessa Giuliana ha ringraziato in qualche suo libro il vescovo caldeo.
Dietro i grandi scenari geopolitici, le guerre, le violenze c’è sempre uno spaccato di umanità. Ci sono i deboli che soffrono. Gli affetti che vengono segnati con ferite indelebili. Per i familiari di Giuliana ma anche per quelli di Nicola: la moglie Rosa, i figli di cui uno nato proprio il 4 marzo, come anche la mamma. Tutti legati a quel 4 marzo. E Nicola – lo racconta Walter Veltroni in un articolo sul Corriere della sera di ieri – voleva regalare, quella sera tornando dall’Iraq un pallone a suo figlio Filippo. Nicola Calipari era un uomo dello stato. Un eroe: così venne chiamato, ma per poco tempo. Poi su di lui il silenzio e l’oblio. Forse perché ha fatto uno sgarro agli americani che non volevano che si trattasse per la liberazione di Giuliana? Oggi è doveroso ricordarlo. È doverosa la memoria e la ricerca della verità, sempre.
Un grazie a Giuliana per il suo modo di essere donna, giornalista, attenta alle vittime della guerra, soprattutto alla donne “bottino di guerra, dagli antichi greci fino ai nostri giorni”, come scrive nel suo ultimo libro: “Manifesto per la verità” (Donne, guerre, migranti e altre notizie manipolate, ediz. il Saggiatore).
Quanti giornalisti rinunciano a cercare la verità. Quanti giornalisti vengono uccisi proprio perché cercano la verità. Lo scorso mese di agosto, regalando a me e a mia cugina Monica, il libro che stava per uscire, ci scrive questa dedica: “Ai due Sacco, la verità è in fondo al mare ma noi non rinunciamo a cercarla”.
Può darsi che anche oggi, in questo anniversario, qualcuno se ne uscirà ancora con la trovata che se l’è andata a cercare, che dovevano tenersela, che doveva stare a casa. E poi questa giornalista non è mica tanto cattolica… Ne leggiamo anche oggi di tutti i colori. Non c’è umanità in alcuni commenti anche davanti alle tragedie di oggi: Lesbo, Siria, Idlib, Turchia, Iraq, Iran, Gaza, Afghanistan, Algeria… Tragicamente vero il titolo di Avvenire di ieri: “Un altro virus letale: è caccia ai profughi”.
Ed è doveroso un grazie a Nicola Calipari, al suo essere vero uomo a servizio dello stato, della comunità. Forse non gli verranno dedicate grandi piazze, ma lui resta un grande uomo. Uno che ha davvero dato la sua vita per salvare quella di un’altra persona.
E con lui tanti altri uomini e donne che ci chiedono, come ci ricordava Vittorio Arrigoni – di “restare umani”.
Cesara, 4 marzo 2020