Alcune considerazioni sul caso “Silvia Romano”

25 giugno 2020 - Nadjia Kebour

Non vorrei parlare di complottismo politico, ma quello che mi interessa è cercare di capire la psicologia di una persona che ha vissuto momenti difficili e certamente drammatici, rischiando la vita, lontano dalla propria famiglia, dagli amici e, come lei stessa dichiara, sperduta nella giungla. Vorrei parlare tanto di Silvia, anche se non la conosco personalmente: una donna coraggiosa, altruista, che ha scelto un percorso difficile per aiutare un popolo che vive in guerra e in povertà. Vorrei parlare di Silvia, una donna occidentale, giovane, bella e fragile. Ma non vorrei giudicarla perché non la conosco e non so quale esperienza possa aver vissuto, quando è stata rapita, in quella terra martoriata da continue guerre e piena di rischi e pericoli!

Posso solo immaginare la paura, il terrore che l’ha attanagliata quando è stata rapita da questo gruppo di estremisti jihadisti, in quanto, anch’io, ho vissuto nel mio paese l’esperienza del terrorismo e so cosa significa cadere nelle mani degli estremisti che vedono chi non è dalla loro parte, come un “diverso” (indipendentemente dal fatto che sia o non sia musulmano), come un nemico da combattere, da convertire con la forza o da abbattere.

Posso solo immaginare la fragilità di Silvia di fronte a queste persone fanatiche, che potrebbero averla torturata psicologicamente e forse anche fisicamente.

Può darsi che Silvia abbia preso il Corano e l’abbia letto e ne sia rimasta colpita; può succedere a chiunque. Può darsi che lei abbia trovato qualcosa di affascinante in questo libro, un sostegno, un rifugio, dal momento che era nel buio, nel nulla, nella più profonda disperazione!

Può darsi che i terroristi non le abbiano fatto alcun male fisico, ma l’abbiano segregata in una stanza stretta, buia, senza finestre, avendo essi nelle loro menti un’immagine fanatica dell’Islam e della donna musulmana. Gli estremisti, non a caso, parlano della donna come se fosse la creatura più problematica da correggere e da “sistemare”. Si pensa subito a convincerla a indossare il velo, come segno di appartenenza all’Islam e, quindi, come tale, essere una donna degna di rispetto!

Ricordo che al tempo del terrorismo in Algeria, i terroristi andavano in giro dicendo: “Voi donne algerine non siete musulmane, perché la vera donna musulmana deve essere velata!”. Loro, i fanatici e i terroristi hanno introdotto l’idea del velo come simbolo di appartenenza all’Islam, cosa che prima di essi non esisteva. Ce lo hanno imposto attraverso minacce, bestemmie e, persino, uccisione di donne che rifiutavano di indossarlo. Il velo è diventato un simbolo religioso femminile che rappresenta l’identità religiosa di una donna. Si riconosce subito che una donna è musulmana se porta il velo sulla testa. Ma questo non dice nulla se lo porta per libera scelta o perché è stata costretta a farlo; alla fine il velo si è trasformato in una sorta di “velo protettivo” perché protegge la donna dagli estremisti e dagli sguardi cattivi e minacciosi dei maschilisti. Non sono contro il velo islamico, ma sono contro chi lo impone in maniera aggressiva o violenta, togliendo alla donna la libertà di praticare la sua religione e facendola sentire fonte di peccato. Può darsi che Silvia abbia aderito a quell’Islam che si basa sull’apparenza e non sulla spiritualità profonda e sulla misericordia. Qualunque sia stata la sua scelta, qualunque sia stato il motivo della sua conversione, io non la giudico, anzi mi auguro che lei sia serena ed in pace con sé stessa. Spero che lei ritrovi sé stessa, la serenità e la pace interiore, e che sia lasciata in pace da tutti coloro che le hanno fatto del male, sia in quelle terre lontane che in Italia. Non è il momento di fare polemiche; si sa che “l’abito non fa il monaco” .

Lasciatela in pace, lasciatela riflettere sulla sua vita!

 

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