I veri volti dei dannati
Forse dovremmo ripensare la storia a partire da quelle immagini: gli occhi bianchi, gli sguardi assenti, le gambe rigide, la pelle rinsecchita; denutriti, disidratati, immobilizzati. Sono i miserabili, che misurano la nostra civiltà. Sono uomini, ma nell'éra dei diritti universali non valgono nulla. Sono uomini, ma clandestini e dunque non si vedono, non si possono vedere. Bisogna sbattergli la porta in faccia, argomenta il leghista Calderoli, perché da quella porta entra il terrorismo internazionale.
Come facciamo a crederci? Non è forse che la politica, una certa politica, pur di tener lontano lo straniero andrebbe a scomodare perfino Bin Laden?
«Solo voy con mi pena / sola va mi condena / correr es mi destino / por no llevar papel perdido / en il corazon del grande babylon / me dicen el clandestino / yo soy el quiebra ley. Mano negra / clandestina / peruano / clandestino / africano / clandestino» canta la voce "clandestina" di Manu Chao.
Ecco perché la storia comincia qui, inizia dove Fukuyama l'ha fatta chiudere. La fine della storia come l'abbiamo vissuta durante la guerra fredda, perfettamente pigiata nei suoi fronti ideologici contrapposti, ha aperto la storia complessa delle "diversità" che fino ad oggi non avevamo mai incontrato.
È emerso, con il vestito maleodorante e coperto di cenci, il volto scandaloso dello straniero, dell'Altro, del culturalmente alieno come scrisse Ernesto De Martino. Improvvisamente l'Occidente ha dovuto fare i conti con la miseria più terribile, con i continenti "desaparecidos", con l'ipocrisia di un mondo che fra le pieghe della dichiarazione per i diritti umani, ha nascosto privilegi di ogni sorta.
Ecco l'inizio della storia. Vengono dalla Sierra Leone, dal Senegal, dalla Costa D'Avorio, dal Ghana i dannati della Terra. Vengono le carrette dei mari affollate di neri affamati. Vengono con la consapevolezza perfino di non arrivarci mai, con i figli piccoli che muoiono sulla nave e che mani addolorate di genitori depositano nelle profondità del mare, dove quel bimbo, vulnerabile straniero, almeno verrà cullato dall'acqua anziché bastonato dalla terra. Vengono, nonostante la Lega decida di chiudergli la porta in faccia e, magari, di inviare truppe armate ai confini fra l'Occidente e il sud del mondo. Perché non c'è manganello che possa evitare la corsa disperata dalla miseria al sogno della liberazione. E quindi vengono, vengono, vengono. E noi li vediamo, li vediamo, li vediamo.
E il problema divampa, cresce, si dilata come un'onda che permea tutto il nostro vivere. Non è solo un problema politico, come ha capito perfino il ministro Giovanardi, che ha parlato di "pietà". Il problema è prima di tutto un problema "etico". L'approssimarsi del volto sofferente, disperato, annichilito, inerme, moribondo, solleva dentro di noi un imperativo morale, che non può essere eluso, pena la deriva dell'umano.
Ecco dove sta il confine fra civiltà e inciviltà, fra pace e guerra, fra democrazia e dittatura. Farsi carico del volto altrui: questa è la pace; rifiutare quel volto: questa è la guerra.
Si ribalta perfino il rapporto fra stato e cittadino, perché se alla radice di tutto c'è il riconoscimento dell'altro come elemento costitutivo del genere umano, allora non lo stato può dire se uno è cittadino oppure no perché c'è un diritto di cittadinanza cosmopolita che si basa sul riconoscimento che il volto inerme è portatore di un passaporto naturale, se così si può dire. E così se un affamato fugge dall'Africa e viene in Italia esercita un suo diritto legittimo ed uno stato non può difendersi rispedendolo a casa. E' un diritto primigenio, è l'umanità che deve mirare alla sua salvezza solidale attraverso il riconoscimento dell'altro, dello straniero, del diverso.
È il grande tema dell'ospitalità, indagato con la lente del'etica dai maggiori filosofi contemporanei. E l'ospitalità non è un concetto che si può circoscrivere dentro gli spazi angusti della convenienza. L'ospitalità è un apertura "totale" all'altro.
Il filosofo francese Derrida analizza l'ambiguità del termine "straniero" che nell'etimologia latina significa "hostis", al tempo stesso "straniero" e "nemico". Ecco, l'apertura all'altro deve rischiare di impattare addirittura sul pericolo di fare i conti col "nemico", perché anche l'ombra della diversità irriducibile è un momento dell'accoglienza illimitata.
Ma c'è un "di più". Accogliendo l'altro io dilato me stesso, metto in moto possibilità culturali che altrimenti non potrei fare perché la mia identità è limitata. L'altro mi apre un orizzonte inedito.
«Verranno gli indios, verranno gli ignudi di un tempo – diceva liricamente padre Ernesto Balducci poco prima di morire – verranno i poveri con le loro culture custodite nelle loro anfore ricoperte da ragnatele a spezzare le anfore e farci conoscere liquori che non consociamo (...) O riconosciamo la legittimità dell'alterità umana, o ci ripiegheremo in un declino disastroso».
Le immagini dei miserabili che tentano di salpare nelle nostre isole sembra un dipinto cinquecentesco del grande banchetto ai piedi del quale si distendono i poveri del tempo. I naufraghi della speranza le tentano tutte per raggiungere le nostre coste e poter partecipare al banchetto dell'occidente. Ma guai a loro per tanto coraggio! La porta dell'ospitalità si chiude sui loro volti inermi. Solo le mani della solidarietà "dal basso", le mani dei volontari che li attendono sul litorale per soccorrerli, rompono per un momento almeno la cortina di ferro del rifiuto. Ma proprio questo è umano.