Moralmente malati
Uno dei settori più colpiti dal graduale (e silenzioso) smantellamento dello Stato sociale nel nostro Paese è quello della salute. Anche il recente DPEF non fa eccezione a questa linea di tendenza: la conferma dei contributi devoluti in passato costituisce in realtà un passo indietro, se si considera l’avanzamento galoppante dell’inflazione e l’aumento dei costi per gli interventi a causa della rapidità dello sviluppo tecnologico. Del resto non vi è dubbio che la politica in atto nelle strutture sanitarie, non per nulla denominate “aziende”, è da tempo orientata a incrementare l’efficienza economica secondo una semplice logica di mercato, con la inevitabile penalizzazione di settori non produttivi e con un generale ridimensionamento dei servizi che ha pesanti ripercussioni sulla vita dei malati.
La conquista dei diritti sociali
Alla radice di questi processi vi è un atteggiamento di diffidenza nei confronti dello Stato sociale, considerato fonte di inutili sprechi, e la volontà di sostituirlo con una progressiva consegna ai privati di funzioni che, per il loro alto significato sociale, devono essere esercitati dal “pubblico”. Lo Stato sociale è, infatti, nato (e si è sviluppato) a partire dall’ultimo dopoguerra con l’acquisizione in Occidente dei “diritti sociali” quale condizione essenziale per dare effettiva espressione alla cittadinanza. La Costituzione italiana rappresenta, da questo punto di vista, un’importante riferimento: essa non si limita infatti a ricordare (art. 3) che
è compito dello Stato “rimuovere gli ostacoli” di natura economica e sociale che impediscono ai cittadini di prendere pienamente parte alla vita civile del Paese, ma evidenzia con precisione gli ambiti di impegno, elencando tra i diritti fondamentali, accanto a quelli del lavoro e dell’istruzione, quello della salute in quanto bene personale e sociale. Lo Stato sociale si fa così garante, anche nei confronti dei soggetti più deboli, della promozione dei diritti che consentano loro di diventare, a tutti gli effetti, cittadini. È infatti grazie all’accesso a beni come quelli ricordati che ha luogo l’estendersi dei diritti civili e politici, in una parola dei diritti di libertà, non semplicemente a coloro che hanno il potere di farli valere, ma a ogni soggetto umano.
La crisi dello Stato sociale
L’attuazione del diritto all’assistenza sanitaria – il primo di tali diritti – presuppone lo sviluppo di precise politiche sociali con la creazione di sistemi assicurativi e la fornitura di servizi sul territorio aperti a ogni cittadino. L’offerta di tali prestazioni implica il pagamento di un preciso prezzo politico: non si può certo pensare di cumulare profitto e neppure di pareggiare i bilanci quando gli interventi programmati sono rivolti immediatamente a tutti senza alcuna differenza di classe sociale. Per questo solo lo Stato, e non il “privato”, che privilegia inevitabilmente la ricerca del proprio interesse, è in grado di fornire tale servizio.
La concezione rigidamente economista, che ha trovato espressione nel “pensiero unico” dominato da logiche utilitariste e produttivistiche, ha avuto, in questi ultimi decenni, pesanti ripercussioni anche in questo ambito. Le sollecitazioni di adeguamento del sistema sanitario al mercato, con la tendenza a concepire la salute come bene di consumo, denunciano l’avanzare di una mentalità dominata da tale concezione. Sembra che tutto debba essere misurato in base al paradigma della massimizzazione dell’utile produttivo, e che pertanto ogni presentazione vada adeguata a tale criterio.
A caccia di un capro espiatorio
A sostegno di questa tesi si adduce la oggettiva difficoltà di contenimento della spesa pubblica con gravi ripercussioni sul bilancio dello Stato, denunciando apertamente come responsabile lo Stato sociale. È doveroso reagire a questa situazione, difendendo le ragioni di stretta giustizia che sono alla base della salvaguardia per tutti di diritti come quello alla salute. Questo non significa tuttavia che non si debbano prendere in seria considerazione gli aspetti discutibili della odierna conduzione delle politiche sociali e che non ci si debba impegnare a porvi rimedio. La constatazione dei limiti di un sistema caratterizzato da un forte centralismo monopolistico e gestionale che ha moltiplicato la burocrazia e alimentato gli sprechi – e questo proprio nel momento in cui, nel campo della salute, il progresso tecnologico e la sempre più ampia domanda di assistenza esigevano una maggiore crescita delle risorse – rende evidente la necessità di un’inversione di rotta.
Migliorare non smantellare
Lo Stato sociale va cambiato riformandolo in profondità e potenziandone ulteriormente le prestazioni. Si tratta di dare vita a un modello gestionale che corregga le inefficienze senza depauperare l’offerta quantitativa e soprattutto il livello qualitativo dei beni e dei servizi: un modello che renda compatibile l’assicurazione a tutti i cittadini di un’adeguata protezione sanitaria con il contenimento del costo delle prestazioni esigite. Le piste da percorrere per perseguire tale obiettivo sono costituite da una radicale riconversione delle strutture e da un profondo rinnovamento delle coscienze.
A livello strutturale si esige lo sviluppo di un rapporto costruttivo tra istituzioni pubbliche e soggettività locali, mediante la creazione di una più stretta integrazione dei sistemi istituzionali con i “mondi vitali” e con il tessuto sociale in genere. I mali segnalati sono infatti anche la conseguenza del dissolversi dei legami familiari e parentali e delle forme di microintegrazione sociale. Il miglioramento nella gestione dei servizi e la riduzione delle spese dipendono perciò da una responsabilizzazione attiva dei singoli e dei soggetti sociali volta a dare vita a un sistema capace di sollecitare la partecipazione attiva di tutti e di promuovere non solo la consapevolezza dei diritti, ma anche la coscienza dei doveri di cittadinanza. Solo da tale sistema è possibile una armonizzazione di efficienza e di solidarietà, creando le premesse per una sempre maggiore umanizzazione dei servizi.
Al centro la persona
A livello del mutamento di coscienza fondamentale è anzitutto il cambiamento di atteggiamenti del personale sanitario: la qualità dei servizi è infatti anche frutto della personalizzazione delle cure e dell’efficacia dei metodi di intervento. Indispensabile è qui l’acquisizione di abilità comunicative e la capacità di assimilare una mentalità che concepisce il “curare” come un “prendersi cura” del paziente secondo una modalità di coinvolgimento che, senza rinunciare a mantenere la giusta distanza, testimoni un reale interesse per la persona e per la ricerca del suo vero bene. Non meno importante è, d’altronde, anche una radicale conversione di mentalità da parte degli utenti, che li porti a reagire alle logiche individualistiche imperanti e susciti nuove modalità di impegno. Si tratta di dare vita, in altri termini, a un processo di riappropriazione della salute dal basso, considerandola come un bene che ciascuno deve anzitutto perseguire con le proprie forze, e non semplicemente attendere come risultato di prestazioni erogate da competenze specialistiche.
La difesa dello Stato sociale è dunque un fondamentale dovere morale. Se si vuole tuttavia favorirne la crescita, occorre restituire alla società civile (e attraverso di essa a tutti i cittadini) la possibilità di gestirlo in termini più snelli e più efficaci. Tutto questo comporta – e il tema della salute lo conferma – una elaborazione collettiva dei presupposti culturali che devono orientare gli indirizzi di fondo delle politiche sociali e la disponibilità del potere politico a entrare in un dialogo permanente con la società per intervenire con misure adeguate, volte a tutelare e a promuovere il bene di tutti e di ciascuno.