Ricchezza senza benessere
La potenza cinese rimane intatta, nonostante surplus immobiliari e banche troppo esposte che rischiano di non essere mai rimborsate. Ma la Cina è protetta dalle sue forti riserve di valuta (125 miliardi di dollari) e da un indebitamento pubblico interno molto basso (circa il 5% del prodotto interno lordo). Può permettersi di correre. Tanto. Chiediamo al premio nobel per l’economia Amartya Sen, intellettuale molto sensibile agli equilibri sociali prodotti dallo sviluppo, uno sguardo “globale” sull’economia mondiale e su quella asiatica in particolare, dopo la sciagura dello Tsunami.
Lo Tsunami ha causato danni stimati come superiori ai 10 miliardi di euro. Quali effetti si verificheranno sui Paesi colpiti?
Il presidente della Banca Mondiale, James Wolfensohn, ha detto che “i danni dovrebbero raggiungere i 5 miliardi di dollari” e che si sta “valutando l’impatto economico del disastro”. Impresa non facile per un disastro che ha provocato 150 mila morti, milioni di senza tetto, spazzato via case e infrastrutture. Secondo il World Travel and Tourism Council (WTTC) il turismo è il settore vitale per l’area dando lavoro a 19 milioni di persone. Inoltre, secondo la banca d’affari Prudential il maremoto “metterà a rischio la produzione degli articoli di abbigliamento sportivo della Nike e della Reebok, dislocata in buona parte in Thailandia e Indonesia”.
Prudential fa notare che il 43% della produzione di scarpe della Nike arriva appunto da Thailandia e Indonesia, mentre Reebok è dipendente dai due Paesi per il 36%. Per la Thailandia, la società di analisi Idaeglobal prevede un taglio dello 0,5% del PIL e che nel primo trimestre ci saranno difficoltà sulla bilancia dei pagamenti. Più seri i danni alla pesca, una delle principali fonti di reddito per la popolazione. L’impatto economico dovrebbe essere inferiore a quello causato dalla Sars o dalle conseguenze delle violenze politiche che hanno scosso le zone meridionali. Anche l’Indonesia subirà una riduzione della crescita 2005 dello 0,2% mentre il bilancio subirà forti pressioni a causa delle spese straordinarie e di una
politica fiscale di sostegno. In Indonesia fortunatamente i resort di Bali, una delle principali tra le attrattive turistiche, sono rimasti illesi dalla furia delle onde e quindi il turismo, che genera il 2% del PIL, dovrebbe subire ridimensionamenti limitati. Gli economisti ritengono che la ricostruzione però non sarà rapida. A questo scenario vanno aggiunti i costi derivanti dalle epidemie che secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità potrebbero uccidere lo stesso numero di persone morte nella regione. L’impatto economico del disastro sarà pesante, ma non tale da far deragliare la ripresa in corso nel Sud est asiatico.
Facciamo un rapido giro del mondo, per misurarne lo stato di salute. Partiamo dalla Cina...
Gli investimenti esteri affluiscono in modo massiccio nel settore immobiliare e in questo campo la Cina segue immediatamente gli Stati Uniti, ma non hanno carattere speculativo a brevissimo termine. Anche se i flussi rallentassero sensibilmente, il che rischia appunto di succedere, è molto improbabile che un ritiro brutale degli attivi esteri provochi una crisi monetaria. Ma, per finanziare la sua rapida crescita, la Cina dipende dal volume e dall’aumento delle sue esportazioni. Se queste segnassero il passo a vantaggio di concorrenti come Thailandia, Indonesia o Corea drogate da forti svalutazioni delle valute, Pechino sarebbe costretta a rivedere anche la parità della sua moneta. Non se lo augura. Il decollo delle vendite cinesi sui mercati esteri è stato, infatti, attuato in gran parte a spese dei “dragoni” del Sud-Est asiatico. Immagini, come detto, che cosa potrebbe accadere ora visto che la Thailandia affronterà una profonda crisi e periodo di ristrutturazione...
Cosa accade ora negli altri Paesi della zona Asia...
Nei Paesi emergenti dell’Asia, le esportazioni sono spesso il prodotto di investimenti esteri diretti. Molto prima dell’attuale crisi finanziaria, anche questi erano stati orientati verso la Cina. Nel 1991, la Thailandia riceveva il 10% degli investimenti destinati all’Asia; la Cina il 20%; nel 1994, la Thailandia scendeva all’1,3% mentre la Cina raggiungeva il 67%. La Malesia è passata dal 20% all’8%.
Tutte le “tigri ferite”, come il Giappone prima di loro, hanno basato il proprio sviluppo sulle esportazioni. La Cina sembra copiare questo modello. Ma il rapporto di dipendenza, cui i flussi commerciali costringono le nazioni asiatiche, è ormai tale da essere divenuto insostenibile.
È ormai chiara la dipendenza del commercio mondiale dalla locomotiva Cina. Ma è una locomotiva affidabile?
Per raggiungere i suoi scopi, deve mantenere un rapido ritmo di crescita, in funzione dei criteri che definiscono il potere. Vale a dire, deve scalare il più rapidamente possibile la “catena del valore”, passando da un sistema di imprese contadine e micro-imprese a forte intensità di mano d’opera – dove si producono soprattutto materie prime o semi-lavorate – a un altro, industriale, sofisticato che punta all’automobile, ai macchinari e ai prodotti chimici. Senza dimenticare l’elettronica di punta, le telecomunicazioni e il settore aerospaziale, le cui tecnologie a “doppio uso” costituiscono le basi della capacità militare.
Un problema trilaterale. Lo sbocco è prevedibile: l’automobile. Il reddito nazionale aumenterà, ma non necessariamente il benessere. Siamo lontani mille miglia dalle piccole discussioni che oppongono Stati Uniti e Europa su argomenti quali il vitello agli ormoni, i diritti di atterraggio o anche Airbus. Queste si esasperano e si smorzano in un contesto di complementarietà a lungo termine, di equilibrio degli scambi e di mutua interpenetrazione tramite gli investimenti diretti all’estero.
Nel caso della Cina, gli scontri assomiglieranno di più alle “dispute”
La sua produzione è vastissima, ma negli ultimi anni l’attenzione si è concentrata sugli effetti della globalizzazione, sul rapporto tra economia ed etica, sul legame tra ricchezza e benessere sociale. Recentemente ha scritto La democrazia degli altri. Perché la democrazia non è un’invenzione dell’occidente (Mondadori, Milano, 2004), un saggio bello e discusso sulle origini non occidentali della democrazia.
Accanto alla Cina, cresce anche la potenza indiana…
Il timore di molti, tra cui l’India, è il possibile impiego, da parte dei Paesi a economia avanzata, di barriere ambientali contro l’importazione di beni provenienti dall’estero. Per questa ragione l’India si era battuta per evitare che questioni di carattere ambientale venissero messe in agenda nell’ultimo vertice sul commercio mondiale di Doha. Le disposizioni in tema di protezione dell’ ambiente non avranno un impatto negativo per l’India in quanto rappresentano principalmente un insieme di dichiarazioni di intenti più che di veri regolamenti dai quali è possibile fare discendere diritti e doveri per i singoli Paesi.
Professor Sen, lei ha affrontato in molti testi la questione della globalizzazione, del commercio equo e solidale e i loro rapporti con i valori della libertà dell’individuo. Si tratta di temi molto concreti per i Paesi dell’America Latina...
L’America Centrale è nella morsa della fame. Eppure l’Accordo sul libero scambio nell’America Centrale difficilmente porrà rimedio al disastro sempre più grave nelle zone rurali di Guatemala, El Salvador, Honduras e Nicaragua. I mercati non regolati sono in larga parte la ragione per cui 700 mila centramericani fronteggiano la morte per fame e quasi un milione soffre una seria carenza di cibo. I più colpiti sono i lavoratori delle piantagioni di caffè e i coltivatori di mais. I prezzi del caffè stanno scendendo dal crollo dell’Accordo Internazionale sul Caffè del 1989, che assegnava ai Paesi quote di produzione. Negli anni passati, i prezzi sono precipitati ulteriormente a causa dell’aumento improvviso delle esportazioni dal Vietnam e dall’Indonesia, dove la Banca Mondiale aveva incoraggiato l’estensione delle superfici dedicate al caffè. Con il mercato saturato, molti coltivatori di caffè non si sono dati la briga di seminare quest’anno. Il risultato saranno gli sfratti dagli alloggi nelle piantagioni, un aumento del passaggio a bassifondi formicolanti e fame acuta tra i lavoratori del caffè disoccupati.
Anche i coltivatori di mais hanno visto il mercato stritolato. Dal 1992 l’America Centrale ha un accordo sul commercio di grano intra-regionale e quasi nessuna protezione contro le importazioni a basso costo. Costretti a competere con i coltivatori USA fortemente sovvenzionati, molti coltivatori dell’America Centrale hanno abbandonato la produzione alimentare, fatto bancarotta e perso la terra. La carestia trova sempre le sue radici nelle politiche economiche e nelle decisioni politiche. I politici USA dovrebbero chiedersi, allora, cosa dice la carestia in espansione della democrazia dell’America Latina, per la quale Washington ha speso miliardi di dollari e intrapreso tre guerre ravvicinate durante gli anni Ottanta.
Apparentemente, il gap tra governanti e governati nei quattro Paesi interessati è così ampio che i politici sentono una scarsa pressione per affrontare la crisi. Non c’è da meravigliarsi che i sondaggi mostrino che appena il 35% degli honduregni, il 24% dei nicaraguensi, il 21% dei salvadoregni e il 16% dei guatemaltechi sono “soddisfatti” dal funzionamento della democrazia nei loro Paesi. La terra in Centro America potrebbe garantire standard di vita decenti per piccoli coltivatori se potessero ottenere sistemi di irrigazione su piccola scala, un miglior accesso alla terra, l’assegnazione sicura di una proprietà, credito a basso costo e protezione dalla competizione sleale e contro le devastazioni delle forze del mercato globale.
Queste misure darebbero finanche ai più poveri tra i più poveri una possibilità nelle loro società, ma sarebbe necessario che le élites prendano sul serio i bisogni popolari. I settori pubblici sventrati dalle privatizzazioni e da tagli di bilancio non possono far fronte alle disuguaglianze che la globalizzazione genera. Le proposte di Bush sul commercio potrebbero essere il colpo del KO.
Il legame tra mercato e sviluppo economico è riconosciuto da tutti. Ma si può stabilire un nesso tra servizi pubblici e sviluppo?
Cito spesso due esempi illuminanti: quello del quartiere newyorkese di Harlem e quello di Sri Lanka. Mentre ad Harlem, in cui il reddito medio è elevato, abbiamo una speranza di vita inferiore a quella del Bangladesh, accade che nello Sri Lanka, con un reddito medio inferiore, la speranza di vita sia paragonabile a quella dei Paesi occidentali. Una spiegazione possibile è che ad Harlem la qualità della rete di servizi sociali e in genere pubblici è inferiore che nello Sri Lanka. Va anche sottolineato che le politiche pubbliche miranti a convertire la crescita della ricchezza in aumento del benessere della popolazione non hanno esclusivamente un fine redistributivo.
Si deve infatti considerare che una popolazione con adeguati livelli di istruzione, salute ecc. rappresenta anche un serbatoio di forza-lavoro di elevata qualità media; vi è quindi anche un ritorno in termini di ricchezza per il mondo produttivo. In termini economici, si dice comunemente che la cura del benessere della popolazione implica una accumulazione di capitale umano che è senz’altro di beneficio per la crescita dell’economia. A titolo di illustrazione, si può notare che alcuni Paesi ormai usciti dal sottosviluppo, tipo Taiwan o la Corea del Sud, hanno avuto fra i tratti distintivi quello di possedere una forza lavoro qualificata, con livelli di istruzione e salute medio-alti.
È anche notevole il fatto che, a monte di questa caratteristica della forza lavoro, sta una rete informale (non pubblica) e molto potente di servizi sociali: l’educazione dei figli, la cura dei malati e degli anziani sono state e sono seguite con dedizione e impegno dai privati cittadini, il che ha garantito quella qualità della forza lavoro di cui dicevamo.