Credere senza nevrosi
Eugen Drewermann è uno dei teologi più letti e più temuti al mondo. Più letti perché le sue parole parlano di vita, di umanità, di solidarietà, di amore, di compassione, di tenerezza, di affettività e di complicità con le sorti dell’altro uomo. Più temuti, perché la sua lettura della Bibbia non parte dal principio dogmatico e dalle formule codificate dalla legge della Chiesa istituzione (sempre opinabile), ma cerca di bruciare le distanze per arrivare al cuore di Gesù e alle sorgenti della fede. Drewermann tenta questo esperimento con gli strumenti della psicanalisi, con lo studio dell’inconscio, con l’approccio più affettivo e meno cerebrale.
Insomma, ci troviamo di fronte a un prete sui generis, potremmo dire, apripista di una nuova teologia psicanalitica, affascinante comunicatore di un pensiero critico, che non accetta passivamente il diktat religioso impaludato di categorie razionali. Abbiamo intervistato Eugen Drewermann alla fine di un suo intervento sul tema “salvezza e guarigione” tenutosi a Collalbo sul Renon (Bolzano).
Eugen Drewermann, ultimamente la sua analisi si è incentrata sul tema della salvezza e della guarigione. Un tema arduo, che ha implicazioni psicanalitiche personali, però anche implicazioni con il sistema-mondo in cui viviamo, quasi a far pensare che, se questo mondo potesse essere disteso sul lettino, vedremmo immediatamente una proiezione di nevrosi e ossessioni inimmaginabili. Ma lei, nei suoi saggi e nei suoi libri, allarga il tema della salvezza ai convulsi movimenti di umanità, come le migrazioni di popoli che vengono cacciati e ricacciati da ogni parte. Per lei questo è uno scandalo.
Da qui al 2050?
Sì, da qui al 2050 ci saranno nel nostro piccolo mondo nove miliardi di persone, di cui due terzi non sapranno come sopravvivere. Un problema che riguarda l’economia, non la psicologia. Viviamo in un mondo rovesciato. Abbattiamo i confini per il trasferimento di capitali e di industrie, però li chiudiamo alle persone. Abbiamo un bisogno urgente di cambiamento dell’ideologia del mercato fine a se stessa, però ciò non avviene. È chiaro che in un mondo così fatto i poveri chiedano di poter partecipare al banchetto dei ricchi. Ma gli stati del ben-essere, come l’Europa e l’Australia, si chiudono ermeticamente nei propri confini perché non vogliono vedere le conseguenze delle proprie azioni. Questo meccanismo ci porta alla contrapposizione fra primo e terzo mondo, fra le popolazioni che stanno bene e quelle che brancolano nell’indigenza e nella fame. Ma il meccanismo si dilata anche all’interno degli stati nazionali, dove si allarga la forbice fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri. Ecco allora che si pone la grande domanda etica: cosa possiamo fare noi davanti a questa situazione di tremenda ingiustizia planetaria e di fronte alle legittime richieste di movimento delle popolazioni che fuggono la fame? Oggi molta gente che fugge dalla Nigeria, dal Ghana, dalla Turchia deve dimostrare, una volta arrivata nei Paesi ricchi, che scappa per motivi politici e che ha testimoni diretti. Incredibile. Ma quale stato ha l’interesse a riconoscere a queste persone in fuga il diritto di asilo politico?
È un circolo vizioso. Non se ne esce.
Individualmente ci sono persone che obiettano a questo sistema atroce. Ci sono impiegati statali, piloti di aerei, poliziotti, che davvero vengono in aiuto di queste persone a rischio anche di perdere il proprio posto di lavoro.
E la Chiesa che fa?
Qui volevo arrivare... La Chiesa dovrebbe essere una sorta di internazionale dell’umanità e rifarsi alle sue vere fondamenta, che sono quelle testimoniate da Gesù, l’uomo nuovo, il figlio di Dio che ascoltava il cuore dell’umanità. Ma sia il Vaticano che le Chiese locali continuano a rifiutare questo ruolo fondamentale, preferendo utilizzare le modalità e i linguaggi della diplomazia.
I credenti oggi si attendono un discorso chiaro, senza fronzoli, preciso, che si fa carico del rischio per la salvezza dell’uomo che viene, che si manifesta, magari col suo bagaglio di sofferenza e di angoscia. Molte persone hanno capito da tempo che la parola di Dio vale davvero solo quando trasforma la paura in speranza. E questo è possibile solo attraverso l’esperienza vissuta, ossia destrutturando tutti i discorsi teologici in forme pratiche di azione nel mondo. L’insegnamento di Gesù, nell’interpretazione di san Paolo e di Martin Lutero, spiega perfettamente che nessuna persona può essere buona solo perché lo vuole, ma la sua bontà gli deriva solo da una manifestazione pratica del bene. E la grazia è la rivelazione di un incontro con l’altro.
È un altro modo di intendere la fede. Già Dietrich Bonhoeffer aveva posto il problema della fede nel tempo della sciagura nazista. Oggi – diceva
(E. Drewermann, La fede inversa, la meridiana, Molfetta, 2003)
Il grande problema è che noi abbiamo una fede di derivazione autoritaria, che ci arriva dall’autorità ecclesiale sotto forma di superstizione. E in questo senso Freud aveva ragione a credere all’ateismo come un atteggiamento assolutamente umano, perché se credere a Dio significa conservare paure e angosce infantili, allora è una liberazione chiudere con quella fede-credenza. Ecco, dunque, la grande domanda che deve interpellare la Chiesa e ogni altra tradizione religiosa dell’umanità oggi: è importante difendere e sviluppare l’autorità, oppure vivere la fede nella vita concreta, pratica, nell’esperienza di un mondo sensibile e aperto alla voce e al richiamo degli altri? Essere liberi significa rompere con la nevrosi della costrizione. Un tema importante anche in chiave ecumenica.
Quale futuro hanno quindi i valori simbolici, l’identità, la religiosità?
È importante che vi siano degli spazi in cui le persone vengano considerate come valori in se stesse e non più strumenti per un fine materiale. È questo un obiettivo cui mirano insieme sia la religione che la psicoterapia affinché non si richieda alle persone ciò che esse possono diventare per noi, bensì incontrarle per la loro identità, offrendo loro la possibilità di conoscere e ritrovare se stesse.
La teologia riveste ancora una grande importanza per la visione terapeutica di cura dell’uomo?
La psicologia e la teologia, pur avendo punti di partenza diversi, cercano di conseguire lo stesso scopo: prendersi cura della psiche umana. Mentre però lo psicoterapeuta, alleandosi con i sogni del paziente, giunge negli strati profondi dell’inconscio, come Orfeo alla ricerca della sua Euridice, il teologo, utilizzando i modelli offerti dalla storia della religione o dalla rivelazione, tenta di scendere dall’alto dell’illuminazione fino al piano della realtà. Entrambi i metodi, per quanto diversi siano i loro punti di partenza, si condizionano a vicenda. In ultima analisi, non si può credere in Dio, senza credere nell’uomo e probabilmente non si può nemmeno credere nell’uomo senza credere in Dio.