Non aveva mai ceduto, Hashem. Era rimasta intatta negli anni la sua volontà di ricostruire Hebron pezzetto per pezzetto, di difendere la sua casa di famiglia di Tel Rumeida, nel centro del suk, e il suo cortile con gli ulivi e gli albicocchi sempre attaccati dai coloni, e di raccontare a tutti l’occupazione in uno dei punti in cui è più feroce. Medico e uomo di cultura, volentieri faceva da guida in città e apriva il suo salotto offrendo un té e molti racconti a chiunque fosse venuto a vedere. Era instancabile. Un punto di riferimento. Il simbolo stesso della “resilienza”, la capacità di sopportare traumi, palestinese. Volevano a tutti i costi che se ne andasse da lì, ma lui, uno dei 48 ancora nella sua casa nel suk, diceva che avrebbe resistito sempre, con la nonviolenza, per essere d’esempio. Negli anni aveva subito di tutto: minacce, pestaggi, irruzioni di coloni in casa, l’arresto del figlio di 5 anni; la moglie, che aveva già perso due bambini per le aggressioni in gravidanza, l’ha dovuta portare lui in braccio a partorire perché l’ambulanza non può arrivare a causa dei blocchi. Non è arrivata neanche per lui, l’ambulanza, quando ha sentito male al cuore il 19 ottobre. Si è dovuto avviare a piedi verso l’ospedale, ma è rimasto coinvolto in un lancio di lacrimogeni. La crisi respiratoria gli è stata fatale. Lo ha accompagnato un corteo immenso. E il pianto disperato di Hebron.