Il percorso di un poeta
Qual è il primo volto che viene in mente parlando di canzoni di protesta? Ha solitamente il cappello da cowboy, un viso strapazzato e i capelli arruffati. É un genio, uno immerso fino al collo nella storia. É Bob Dylan.
Robert Allen Zimmerman, questo il suo vero nome, nasce a Duluth, una cittadina del Minnesota, il 24 Maggio 1941. Ama il rock’n’roll di Buddy Holly, Elvis Presley, Gene Vincent, ma anche e soprattutto il folk di Woody Guthrie il “cantante-vagabondo-attivista on the road”, degli anni della Depressione. La sua carriera ha inizio nei primi anni sessanta e ancora oggi, a quarant’anni dalla data di pubblicazione del suo primo Lp, è lì a calcare, a modo suo, il palcoscenico musicale mondiale. La sua musica che mescola rock, folk, country e blues, canta delle ingiustizie, dei malesseri e delle contraddizioni del mondo come pure di Dio, dell’introspezione dell’uomo e dell’amore: insomma della “vita”. Dylan è un poeta che scrive partendo da se stesso, il mondo attorno non può far altro che adattarsi ai suoi occhi.
Negli anni della contestazione giovanile diviene idolo, bandiera, profeta della nuova cultura. Cantando versi come quelli di Master of war del ‘62 o un anno dopo di The time they are a-changin’ apre una finestra sulla sempre più evidente rottura tra giovani e adulti al potere, accusati di fame di soldi, menzogna e crudeltà, ergendosi a ispiratore del cambiamento.
La sua chitarra e l’armonica a bocca entrano a far parte dell’immaginario collettivo. Dylan non è sempre quello che la gente vuole, la sua arte è sua. Non è la star degli eccessi, non muore prematuramente come vorrebbe il copione, non suona ciò che vuole il mercato. Il cantante acustico cede spesso il passo a quello più elettrico e frequentemente discusso ma che ci regala ugualmente successi indelebili come Like a Rolling Stone e Subterrean homesick blues del ‘65, All along the watchtower del ‘68 e Knockin’ on heaven’s door del ‘73. La voce aspra, raschiante appare differente in ogni album perché così deve essere. E così, i versi, i toni, gli accenti, le atmosfere fanno di pezzi musicalmente e vocalmente irregolari delle perle da ammirare e ascoltare fino a restarne stupiti.
La leggenda di quest’uomo rimane tale perché nelle parole di un album storico come the Freewheelin’ Bob Dylan del ‘62 sembra di leggere il nostro presente. Soffiano nel vento ancora oggi gli interrogativi di Blowin’ in the wind e il terrore e la fine del mondo di A hard rain’s a-gonna fall, per non parlare dell’ancor più inquietantemente profetico incubo di Talkin’ world war III blues in cui Dylan cammina in una città (New York, probabilmente) deserta a causa di un attacco nucleare durato pochi minuti. Se questo non è spaventosamente “l’11 settembre quarant’anni prima”...
e vi nascondete al mio sguardo,
vi voltate e scappate lontano
quando volano i proiettili”
da Master of war
“quante volte le palle di cannone dovranno volare
prima che siano per sempre bandite?…/
quante orecchie deve avere un uomo
prima che possa ascoltare la gente piangere?
Sì, e quante morti ci vorranno perché
egli sappia che troppe persone sono morte?
La risposta, amico, sta soffiando nel vento”
da Blowin’ in the wind
“Cosa hai veduto ragazzo mio caro?
Ho visto un bimbo appena nato con lupi selvaggi tutti intorno…/
ho visto una stanza piena di uomini con martelli insanguinati…/
ho visto armi e spade affilate nelle mani di bambini…/
e una dura pioggia cadrà”
da A Hard rain’s a-gonna fall
“Io guardo in alto verso i cieli di colore blu zaffiro…/
Me ne sto sul patibolo con la testa nel cappio
Da un minuto all’altro mi aspetto che si scateni l’inferno
La gente è pazza ed i tempi sono strani …/
Se la Bibbia dice il vero il mondo sta per esplodere”
da Things have changed
“Tempo fa un pazzo sogno mi fece visita,
sognai di camminare nella terza guerra mondiale…/
Bè, l’intera cosa cominciò alle tre in punto,
ed era tutto finito un quarto d’ora dopo…/
Bè, adesso il tempo è passato e sembra
che tutti facciano lo stesso sogno”
da Talkin’ world war III blues
Il suo ultimo album Love and theft è uscito un anno fa, proprio nel giorno dell’attentato alle torri, un tempismo che ha dell’assurdo, ma neanche troppo, per chi come lui ha più volte ricordato l’Armageddon biblico dicendo con cruda consapevolezza che “la pace è solo il tempo che occorre per ricaricare il fucile”. Zimmerman narra con i piedi per terra di un mondo che può cambiare ad ogni momento e non necessariamente per il meglio. È quello di cui, ci ha sempre avvertito: Things have changed .
Durante le sue interviste ha ripetuto di non capire niente di politica, di non credere di poter cambiare il mondo e di non amare le etichette. Intanto però, fra Grammy Awards, Golden Globe e premio Oscar il suo talento è riconosciuto all’unanimità. Manca solo il Nobel per la letteratura perché, come ha detto la scrittrice Fernanda Pivano, “Dylan è un poeta... Potrebbe suonare la fisarmonica o il fischietto e sarebbe sempre un poeta”.
Quest’anno si è esibito due volte in Italia, al Ravenna festival e al Filaforum di Assago, lasciando in tutti i presenti, pur senza virtuosismi sonori o vocali ma con un’intensa capacità comunicativa, la sensazione di aver assistito a un pezzo unico di storia della musica. Unico come lui: Bob Dylan.