Il movimento che non c’è
La storia dell’obiezione e degli obiettori di coscienza non comincia solo nel secondo dopoguerra, anche se per l’Italia quello è il periodo più significativo. In particolare, dopo il primo e più impegnativo periodo iniziato da Pietro Pinna, è utile riflettere su quanto è avvenuto negli ultimi trent’anni, dopo l’approvazione della legge 772, quando si è registrata man mano una crescita che complessivamente ha toccato all’incirca un milione di giovani i quali hanno scelto, in momenti diversi e con modalità e motivazioni differenziate, di fare obiezione e di compiere un servizio civile alternativo a quello militare.
Ho cominciato a occuparmi di questi problemi nei miei anni giovanili, insieme a un gruppo, al quale sono sempre rimasto legato, che operava a Torino sin dalla seconda metà degli anni 60. Tra gli altri,ne facevano parte Beppe Marasso, Domenico Sereno Regis, Pier Carlo Racca, che avevano costituito il MAI (Movimento Antimilitarista Internazionale), dal quale nacque in seguito l’attuale sezione del MIR-Movimento Nonviolento del Piemonte-Valle d’Aosta.
Alcuni di noi furono arrestati nella piazza centrale della città, il 4 novembre 1971, per aver contestato l’alzabandiera in occasione della fatidica festa che ricorda la fine della prima grande carneficina mondiale. Ne seguì un lungo processo terminato alle soglie del decennio successivo che, dopo una prima condanna e una successiva assoluzione, giunse in Cassazione, ma fu infine coperto da un’amnistia.
Arrivano gli enti
Negli anni successivi, approvata la legge, i giovani obiettori si organizzarono nella LOC (Lega Obiettori di Coscienza) che fu oggetto sin dall’inizio di vari tentativi di egemonizzazione da parte di diverse forze politiche, a cominciare dai Radicali, creando divisioni interne e conflitti che in seguito portarono a una divisione ulteriore con la nascita dell’AON (Associazione Obiettori Nonviolenti). Se all’inizio gran parte dei giovani si riconoscevano nella LOC, man mano che cominciò a crescere il numero degli obiettori, ben pochi di loro si affiliarono a questa organizzazione.
L’entrata in campo, in maniera sempre più significativa, di numerosissimi Enti di servizio civile, alcuni dei quali avevano migliaia di giovani in servizio, determinò un ulteriore cambiamento significativo nel modo con cui l’obiezione di coscienza e il servizio civile vennero intesi. Crebbe man mano una concezione legata più al servizio civile e sempre meno all’obiezione di coscienza, funzionale tanto a quei giovani la cui motivazione era bassa, o quasi nulla, quanto agli Enti che vedevano in questa massa di obiettori degli utili rincalzi per le attività che svolgevano.
Quella che avrebbe dovuto essere, almeno nelle intenzioni dei primi gruppi promotori, un’autentica alternativa e messa in discussione del sistema militare divenne via via una motivazione secondaria, tranne in alcune lodevoli eccezioni.
Non si creò mai un vero e proprio movimento di obiettori di coscienza, per varie ragioni. Oltre al disinteresse, che in alcuni casi diventava un vero e proprio ostacolo, da parte di molti Enti, vi furono anche delle carenze, per ragioni diverse, sia del movimento per la pace (altro “movimento che non c’è”) sia dei movimenti storici della nonviolenza.
Il lavoro di formazione degli obiettori, occasione importantissima per arrivare a migliaia di giovani, fu fatto nel migliore dei casi in maniera troppo marginale, con pochissime risorse, e nel peggiore non venne fatto del tutto oppure orientato solo a esigenze di servizio e non di formazione alla nonviolenza.
Ministero della Difesa e mondo militare più in generale ebbero buon gioco a rendere sempre più inoffensiva la scelta dell’obiezione di coscienza. Dapprima con leggi che ostacolavano in tutto e per tutto tale scelta, poi negando le risorse necessarie a renderla significativa e realmente formativa, infine espellendola totalmente con l’abolizione della leva. Anche il potere politico fece la sua parte, privilegiando sempre l’opzione militare, tergiversando per decenni prima di migliorare la legge e renderla operante e infine accondiscendendo totalmente alla logica militare, che rimane l’unica e fondamentale opzione del nostro modello di difesa.
La Campagna OSM
La campagna successiva, lanciata nel 1982, di obiezione di coscienza alle spese militari e per la difesa popolare nonviolenta (OSM-DPN) vide come punta massima l’adesione di diecimila obiettori, nel 1991, in occasione della prima Guerra del Golfo: una cifra ben lontana da quella delle decine di migliaia di giovani che già allora si dichiaravano obiettori, ma che evidentemente non avevano aderito a tale campagna.
Questo è uno dei nodi centrali di tutta la questione: l’obiezione di coscienza si riduce a mera scelta individuale, di scarsa efficacia, se non si concretizza nella critica radicale al modello di difesa militare teorizzando, praticando e costruendo, almeno embrionalmente, il modello alternativo della difesa popolare nonviolenta (dpn) e della trasformazione nonviolenta dei conflitti. Va detto che molto lavoro fu fatto dalla campagna OSM-DPN in tal senso e che qualche risultato è stato raggiunto, anche se non ancora decisivo. È di grande rilevanza e speranza il fatto che siano nate esperienze come quelle dei “caschi bianchi” che vedono giovani obiettori svolgere il loro servizio in zone di conflitto armato con compiti di prevenzione e riconciliazione, così come le esperienze dei “berretti bianchi” e quelle promosse da vari gruppi e associazioni (Beati Costruttori di Pace, Donne in Nero, Action for Peace, PBI) che hanno saputo avviare concretamente, “qui e ora”, significative forme di intervento e persino di interposizione nonviolenta in situazioni di conflitti armati anche assai acuti.
Ma nel suo insieme, né il movimento degli obiettori, né più in generale quello per la pace (due movimenti che in realtà, come ho già detto, “non ci sono” o se vogliamo essere speranzosi, “non ci sono…ancora”) hanno sinora saputo assumere come punto fondante di una autentica politica di pace la dpn e la trasformazione nonviolenta dei conflitti. Questi sono i punti programmatici, insieme a una radicale critica dell’attuale disastroso e insostenibile modello di sviluppo, che possono rendere concreta l’opzione della nonviolenza e della pace. Altrimenti si rimane sul piano delle dichiarazioni di principio generiche (“siamo tutti pacifisti”), della denuncia di quanto è brutta la guerra (già fatta e meglio di noi cinquecento anni fa da Erasmo da Rotterdam o, alla fine dell’Ottocento, da Bertha von Suttner), oppure si cade nelle ingenuità di accettare le astute “spiegazioni” che il complesso militare-industriale-mediatico confeziona di volta in volta (guerra umanitaria, guerra contro il terrorismo, contro l’impero o l’asse del male e così via), con le “crisi di coscienza” di coloro che si interrogano se “dopo l’11 settembre possiamo ancora essere pacifisti” o se “a Sarajevo e nel Kossovo era giusto o sbagliato intervenire con le armi”.
Luci ed ombre di trent’anni di storia dell’obiezione di coscienza in Italia ci insegnano che occorre uscire da forme di pacifismo generico e assumere la nonviolenza sia come scelta filosofica e di stile di vita personale, sia come proposta politica che sfida le teorie del cosiddetto realismo, incapaci di creare condizioni di pace stabile, durevole e giusta su tutta la faccia del pianeta. Facciamo tesoro di questa lezione, nella nuova fase di ripresa dei movimenti per la pace per evitare di cadere negli errori e nelle insufficienze del passato, prima che non ci sia più tempo per rimediare.
Il futuro sembra infatti riservarci scadenze e nodi problematici ancora più difficili di quelli attuali e il tempo per porre rimedio è poco: occorre agire per tempo, con chiarezza ed efficacia, se non vogliamo essere annientati dalla “grande implosione”, che rischia prima o poi di travolgerci tutti quanti.