Tuta blu e grigio-verde
La tuta blu era ed è, nonostante tutto, il simbolo del lavoro, forse più dei lavoratori, in particolare quelli metalmeccanici: ricopriva, ricopre ancora le ansie, le fatiche, i vissuti di generazioni intere, di lavoratori in fabbrica, alle catene di montaggio, di piccole officine, di grandi e vecchi opifici, ora spesso abbandonati, ora abitati dai nostri vicini scomodi, gli extracomunitari, i profughi, i clandestini o magari ristrutturati per le nuove attrazioni del tempo libero, del consumismo sfrenato, delle asfissianti discoteche.
Alcune tute blu ci apparivano sempre lerce di grasso, altre più pulite ma sempre dense di polvere, intrinse di sudore, servivano come difesa dal freddo, dal gelo dei cantieri, dei capannoni di lavoro dove le rumorose macchine cominciano a ruggire la mattina molto presto, quando non si sono fermate neanche la notte: non c’è nebbia, pioggia o freddo che interrompa questo ciclo.
Certo di tute blu ora ce ne sono meno non perché il lavoro sia odiato, ma perché spesso è fuggito, si è trasformato, si è riconvertito e spesso in certe zone non è mai arrivato al punto di doverlo quasi “rubare” per fare trionfare la dignità di chi del lavoro non può fare a meno!
La “mia” tuta blu l’ho veramente indossata ma ci sono ragioni profonde che animano questo racconto; l’ho indossata in due occasioni, una diversa dall’altra, una l’umiliazione dell’altra, una la negazione dell’altra, e infine solo perché ho indossata l’ “una” ho voluto indossare l’”altra”, quella vera, quella operaia, la tuta blu!
Tuta da obiettore
L’ “una”, la prima tuta blu, la indossai all’interno di un carcere militare a Peschiera del Garda, reo rinchiuso come obiettore di coscienza al servizio militare al tempo in cui questo diritto fondamentale non era ancora riconosciuto nel nostro Paese e così il carcere era la via obbligatoria per i nonviolenti, gli obiettori di coscienza ma anche per molti militari che non reggevano la vita di caserma e la disciplina militare.
Ero rinchiuso da pochi mesi, all’esterno la mobilitazione del movimento degli obiettori di coscienza si faceva sentire per poter arrivare all’approvazione di una legge di riconoscimento: una marcia antimilitarista partita da Trieste doveva arrivare sotto le finestre del nostro carcere.
Il comandante del carcere ci dette pochi minuti per raccogliere le poche cose ma così importanti nella vita di un carcerato: il tutto contenuto in una sportina di plastica, un libro, lo spazzolino, le lettere custodite in appositi contenuti ricavati dalle scatole del detersivo, prezioso fai-da-te imparato in carcere dove il riciclo non ha proprio bisogno di campagne ecologiche.
Tutto si svolse così in fretta ma il ricordo è ancora lucido, profondo, sofferto, intenso quando all’improvviso venni con la forza ricoperto da una tuta blu smagliante, senza alcun segno del lavoro operaio così linda, pulita e stirata da sembrare quasi un vestito vero, un po’ casual: questa strana tuta blu aveva il sottile compito di coprire il “grigioverde” perché la sua “sacralità” non poteva apparire deturpata dai ceppi e dalla lunga catena che ci legava come detenuti mentre l’operaio sì, lui può ben essere visto come delinquente!
Non c’era tempo per capire, per protestare, per indignarsi: si doveva partire in fretta con destinazione Reclusorio Militare di Gaeta, che nell’immaginario collettivo di tutti i militari ha sempre rappresentato una spada di Damocle: chi non ha mai sentito qualche ufficiale pronunciare con rabbia la frase “ti sbatto a Gaeta?” Era una tradizione veramente “speciale” per motivi di ordine pubblico, così “speciale” che nessuno doveva accorgersene proprio perché eravamo militari o obiettori “mascherati”.
L’ho portata per più di venti ore di seguito questa strana tuta blu , con i ceppi ai polsi, con una lunga catena che ci legava tutti, ho attraversato più di mezza Italia, da Peschiera del Garda a Gaeta, ho attraversato stazioni, ho cambiato treni, ho camminato di fronte alla gente che impaurita ci lasciava un varco, ho abitato scomparti ferroviari, sono stato condotto nei vari tribunali civili e militari e sempre “travestito” da operaio, un modo come un altro per infrangere la classe operaia e farla apparire alla gente pericolosa (eravamo nel ‘68 ).
Sentivo quasi un dovere, una forma di riscatto, il proseguire della mia obiezione di coscienza che non poteva fermarsi al rifiuto di vestire la divisa militare ma che doveva essere la chiave di lettura della mia vita perché la violenza non è solo quella eclatante degli eserciti, di tutti gli eserciti, ma regna intorno a noi e sicuramente anche all’interno delle fabbriche, degli uffici, dei posti di lavoro, spesso anche nella scuola, ora più che mai nello sport.
A pensarci bene qual’è la differenza tra un signorSI’ al padrone in fabbrica, nel posto di lavoro e un signorNo in caserma? nessuna, a mio parere.
Tuta da operaio
E così a scarcerazione avvenuta per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza, non persi tempo e non esitai a cercare il lavoro, in particolare quello operaio, dove poter indossare una vera tuta blu.
Una breve esperienza in una piccola bottega artigiana dove la parola o lo statuto dei diritti dei lavoratori forse nessuno l’aveva mai pronunciata o sentita pronunciare:alla sera uscivo con una tuta blu impregnata di vari odori, dall’alcool alla cera, all’acetilene allo schampoo e la gente, allo stesso modo di come si spostavano durante le traduzioni militari, si allontanava un po’, ma in queste occasioni per me non c’era vergogna anzi l’orgoglio e la rivalsa per i torti subiti in passato.
L’espansione industriale degli anni ‘70 non mi creò problemi nella ricerca di un nuovo lavoro operaio da tuta blu, in una grande fabbrica chimica alla periferia della mia città: l’esigenza della produzione aveva anche allentato i controlli sui “curricula” e sulle referenze dei nuovi assunti. In fondo la mia fedina penale era ben sottolineata, non parliamo del foglio matricolare, un vero bollettino di guerra, ma l’imperativo era lavorare, produrre non importa come e con chi.
Giorno dopo giorno, con una giusta dose di umiltà, quella che sa comprendere le ragioni degli altri, che sa ascoltare e un po’ ubbidire i più esperti, il mio inserimento si faceva più intenso e fu così che gli occhi si aprirono sempre di più, i pensieri si soffermavano sulle pessime condizioni di sicurezza e di sfruttamento all’interno della fabbrica.
Notai come la fabbrica fosse molto simile al luogo che avevo appena lasciato, il carcere, con le sue proibizioni, perché al loro posto mi pareva di vedere il pulviscolo nocivo della lavorazione dei prodotti penetrare nei nostri corpi ma anche nel nostro animo, nel nostro modo di pensare, di ubbidire, di accettare i molti incidenti che rendevano giovani operai già grandi invalidi, perché privi di arti superiori o di parte di essi.
Non poteva che essere il pulviscolo della gerarchia, del potere, del massimo profitto che aleggiava nei posti più reconditi della fabbrica, che entrava nelle menti dove non si distingue più fra obiettore o operaio perché gli obiettivi sono gli stessi, rendere dipendenti, poco disponibili e soprattutto senza idee di riscatto, di identità e di dignità.
Ormai ogni incidente, ogni forma di sfruttamento e di violenza interrogavano profondamente la mia coscienza, il solenne impegno che aveva preso, una volta travestito con la strana tuta blu, per ridare dignità a questa tuta, ora sì autentica ma violata!
Bastarono pochi sguardi, piccoli contatti tra gli operai già in sintonia..giorno dopo giorno montava lo sdegno e una giusta e legittima rabbia operaia. Si ridusse il cottimo, lo straordinario, ma eravamo sempre pochi per contrastare una linea padronale che aveva piantato radici profonde.
La direzione non perse tempo: fioccarono i primi provvedimenti sanzionatori, le prime provocazioni, le complicità tra chi aveva sposato la causa della azienda, le contestazioni sulla bontà o meno del fatturato prodotto.
A casa mi aspettava Claudia con il bimbo ancora nel mondo dei sogni: un abbraccio forte, qualche lacrima e poi l’impegno di continuare tutti insieme l’obiezione di coscienza, ieri dietro le sbarre ora davanti i cancelli della fabbrica.
La tuta blu l’ho difesa a lungo e anche se adesso ho cambiato lavoro e vesto altri abiti credo di aver scelto un lavoro, l’assistente sociale, che difende i più deboli, in particolare coloro che la tuta blu non la possono indossare perché producono poco, perché non fanno crescere il Pil o il tasso di crescita dei nostri ricchi paesi Occidentali, e perché ormai sono i nuovi poveri, i nostri vicini scomodi. Grazie tuta blu, non ti dimenticherò!