Cattolici, difendiamo l'ONU
Professor Pietro Scoppola, lei è uno dei più apprezzati storici cattolici. Quale valutazione, proprio dalla sua prospettiva di storico, dà del movimento per la pace emerso in questi mesi e dell'impegno dei cattolici?
Direi che la novità più importante in questo grande movimento per la pace è proprio la presenza forte e convinta dei cattolici in quanto tali, superando anche i classici schemi nazionalistici. Voglio ricordare che l'appello di Benedetto XV contro "l'inutile strage", in occasione della prima guerra mondiale, suscitò reazioni vivacissime non solo nei governi ma anche negli ambienti cattolici. Un illustre domenicano francese disse in un'omelia che l'appello del papa poteva attendere la vittoria della Francia! L'appartenenza nazionale era considerata più importante dell'appartenenza alla chiesa cattolica. Oggi molto è cambiato. Perché ci sono state due tragiche guerre mondiali e perché il magistero papale si è mosso coerentemente in favore della pace e sulla linea del rifiuto della guerra: Pio XII, ancor più Giovanni XXIII (e proprio quest'anno ricordiamo i quarant'anni della Pacem in Terris) e poi Paolo VI, fino a Giovanni Paolo II. Dando alla pace non più il significato di un vago buon sentimento, ma di una realtà che va costruita.
E quale può essere lo specifico cristiano in questa costruzione della pace?
Prima di tutto c'è il lavoro da fare a livello di coscienze, di una cultura della pace che diventa atteggiamento, stile di vita, fatto di dialogo, di rispetto dell'altro, di attenzione del diverso. Tutte cose nuove, non scontate negli ambienti cattolici fino a qualche decennio fa. Quindi cultura e animo nuovo da cui nascano però anche orientamenti coerenti ad altri livelli: il riconoscimento, cioè, della necessità di un ordine giuridico internazionale, di strumenti istituzionali per la pace dotati di potere sufficiente ad evitare i conflitti o a risolverli, intervenendo anche con la forza quando necessario. Oggi, anche in alcuni ambienti cattolici, il rischio è di non vedere l'importanza centrale dell'ONU: c'è piuttosto l'affermazione della pace ad ogni costo, rifiutando qualunque prospettiva di carattere istituzionale. Mi sembra una posizione che si muove anche al di fuori delle indicazioni che il magistero papale in questi anni è andato elaborando sempre più chiaramente.
Ma in realtà la critica radicale che emerge nel movimento per la pace non riguarda l'ONU ma il modo in cui gli Stati nazionali, quelli ricchi innanzi tutto, si pongono nei confronti dell'ONU. Va bene se serve per legittimare guerre e interessi forti, altrimenti la si affossa…
Certo, sappiamo che l'ONU è stato logorato da 50 anni di guerra fredda, da strumenti come il potere di veto, necessita di una seria riforma, ma non c'è alternativa. Occorre che questo imponente movimento per la pace affermatosi tra i credenti si dia, accanto all'obiettivo culturale di un nuovo spirito di pace, un altro obiettivo, politico-istituzionale: il rafforzamento dell'ONU e degli strumenti necessari per risolvere i conflitti. Evitando l'illusione che ci possa essere un mondo senza conflitti: è il modo di affrontarli che può e deve cambiare, passando con convinzione ad un'idea di sovranità e di potere sovranazionale.
Eppure che l'ONU sia in crisi lo dicono proprio i governanti, non i pacifisti…
E io invece penso che, proprio in occasione della guerra in Iraq, la ricerca da parte degli Stati Uniti di un avallo dell'ONU, sollecitato in tutti i modi ma non ottenuto, sia stato un implicito riconoscimento dell'importanza delle Nazioni Unite. E l'ONU ha resistito a queste pressioni. Non esce moralmente sconfitta da questa vicenda. Tutti hanno potuto vedere che i suoi ispettori stavano lavorando bene, che i costi umani della guerra sono stati enormi e quelli economici e politici della ricostruzione lo saranno altrettanto… Volendo fare un riferimento storico, è un po' quello che avveniva quando l'imperatore accettava di farsi incoronare dal papa, cioè da un'autorità considerata moralmente superiore. Oggi gli Stati Uniti, che si muovono in una logica e con tentazioni di tipo imperiale, a chi hanno chiesto l'incoronazione? All'ONU, ma senza ottenerla. E questo li ha posti in una posizione di debolezza e di frizioni internazionali che va al di là dell'esito immediato della guerra. Ecco perché l'ONU va rafforzata e i cristiani devono evitare di contribuire al suo indebolimento. Le loro critiche magari sono motivate dal fatto che l'ONU non basta, sembra insufficiente rispetto alla profezia della pace. Ma in termini di equilibri internazionali il rischio è di fare il gioco di chi vuole delegittimarla per tornare alla politica degli stati nazionali. Il punto centrale è che la pace senza istituzioni non è possibile.
C'è un altro elemento politico molto preoccupante che questa guerra rilancia. Da un lato, un presidente americano che invoca Dio per fare la guerra. Dall'altro, gran parte di chi si è opposto al conflitto, anche nella sinistra di casa nostra, sembra non saper fare altro che affidarsi al Papa. Ma la laicità che fine ha fatto?
È un problema serio. Ma se un presidente americano come Bush (che, è bene ricordarlo, è altra cosa dalla democrazia americana) si arroga il diritto di essere arbitro, in nome di Dio addirittura, del giusto e dell'ingiusto, del bene e del male, non si può rispondere solo invocando il nome di Dio in senso contrario. Va sì condannato questo uso del nome di Dio per la guerra (e il papa lo ha ribadito chiaramente), ma questo non basta. Gli spazi della laicità sono proprio quelli delle istituzioni. Ecco perché servono organismi internazionali forti che offrano strumenti e regole per affrontare i conflitti. Un'urgenza ancora più forte dopo la fine della guerra fredda che ha sciolto le vecchie rigidità che avevamo ereditato. Ci siamo ritrovati persino a fare i conti con guerre che sembravano appartenere solo ai libri di storia: basti pensare ai Balcani.
Nessuna contraddizione, allora, tra spirito religioso e questa costruzione laica della pace?
Nessuna. Se il primo impegno dei cristiani resta la costruzione di una nuova cultura della pace, questo esige il dialogo ecumenico ed interreligioso. Perché le religioni non possono essere elementi di divisione ma di unione. E la prima condizione perché ciò avvenga è il modo stesso di vivere l'esperienza religiosa: non come possesso esclusivo della verità, ma come un sentirci tutti figli dinanzi ad un mistero che ci trascende. E questo è uno spirito profondamente evangelico ma anche pienamente laico.