PAROLA A RISCHIO

Il prezzo da pagare

C’è futuro per il ministero di speranza della chiesa?
Riflessioni dal sud d’Italia.
Rosario Giuè

Come si può oggi osare la speranza? Come può la comunità ecclesiale farsi ministra di speranza, anche nel Sud d’Italia? Una chiesa che si autocomprende come un soggetto spiritualistico, astratto, cultualistico, assistenziale, burocratico, difficilmente potrà vivere la diaconia della speranza. Perché la speranza è legata a persone concrete, a situazioni concrete, a sofferenze concrete. A volti, carni, pelli, corpi di soggetti situati in un luogo e in un tempo in continuo cambiamento.
“Non è più come prima. Non c’è futuro, non possiamo più parlare di futuro. Il futuro non esiste. Quello che oggi abbiamo, quello che ci si presenta dobbiamo prenderlo e conservarlo, perché non possiamo contare sulle possibilità di domani. I giovani queste cose non le capiscono”. È quanto sostiene il meccanico Giuseppe, un bravo e onesto artigiano. Sotto casa, a Palermo, vi è una falegnameria dove da qualche tempo fa apprendistato un ragazzino. È taciturno, avrà sedici anni. Quando la squadra del Palermo doveva andare a Lecce per giocare la partitaspareggio per la serie A, ha messo una lunga asta di legno all’esterno della falegnameria con la bandiera dei colori della squadra locale. È stato l’unico guizzo di euforia che gli abbia visto fare. Dopo giorni ha dovuto ammainare la bandiera ed è tornato a chiudersi nella sua riservatezza, nel suo essere di poche parole, tanto che finora non mi ero sognato di disturbarlo nemmeno con il saluto. Ma l’altro giorno mi sono fatto coraggio e gli ho chiesto di colpo perché non andasse a scuola. Mi ha guardato un po’ tra il meravigliato e il sicuro di sé e mi ha risposto: “Ormai sono vecchio”. Sono rimasto senza parole.
Luisa è la figlia di un amico che tempo fa ha chiesto qualcosa al padre. E avendo questi risposto “domani”, la ragazza non ha trovato altra forma di protesta che quella di dire: “Domani è oggi, domani non esiste”. Troppe attese sono andate deluse, troppi ritardi sono ingiustificabili nella società. La vita ha reso il terreno da arare abbastanza arido. È difficile farlo diventare un giardino. La concretezza, il prendere sul serio le domande degli uomini e delle donne del nostro tempo, senza giri di parole, (c) Olympia senza astrattismi, senza finzioni è l’appello che ci viene rivolto. Come può oggi la chiesa annunciare il Vangelo della speranza e dire: “Alzati e cammina”? Può farlo senza prendere sul serio le istanze dei volti e dei corpi delle persone? Senza l’ascolto, senza il chinarsi sulle ferite di uomini e donne concrete non vi è spazio per l’annuncio credibile della speranza.

Chiesa in ascolto
Una comunità ecclesiale in ascolto è una comunità che si fa carico delle domande anche di chi sembra lontano ma un po’ ci guarda, di chi è scettico, di chi è stanco di aspettare, di chi non ce la fa più. È una comunità che si fa interrogare dalla vita reale delle persone, dalle loro scoperte, dalla loro sofferenza. Ma l’ascolto non basta. È solo il primo passo. La comunità ecclesiale può essere ministra di speranza se poi, come il samaritano, paga il conto e si impegna a pagare al ritorno ciò che ancora è necessario. Pagare il conto significa anche risolvere le contraddizioni al proprio interno. Per essere credibile ministra di speranza la comunità ecclesiale è necessario che si autocomprenda come un soggetto che si fa mettere in discussione, che sta sulla strada e si fa riformare dalla strada, cogliendo nella strada un appello dello Spirito di Dio.
Reinventando la propria prassi, le proprie scelte, le proprie regole, se questo è il conto da pagare. Ciò può forse creare delle tensioni. Ma anche questo è il prezzo da pagare, la croce da abbracciare, per essere fedeli all’uomo e alla donna contemporanei. Solo testimoniando di prendere sul serio le domande che la riguardano, la comunità ecclesiale potrà essere a sua volta ascoltata quando si presenta come ministra

“Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si aprì al sorriso,
la nostra lingua si sciolse in canti di gioia.
[…] Riconduci, Signore, i nostri prigionieri,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo.
Nell’andare, se ne va e piange,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con giubilo,
portando i suoi covoni”

Salmo 125


che annuncia speranza nella società sulle questioni terrene ed escatologiche. Come si può pensare di essere ministri di speranza se ci si presenta con il volto di chi ha la risposta facile a tutto a partire da un bagaglio di certezze immutabili, senza che si faccia la fatica del mettersi in gioco in prima persona? In questo farsi samaritani dell’altro e dell’altra, nel fermarsi e pagare un prezzo, ognuno ha la propria responsabilità. Non basta dire che chi sta “in alto” non cambia.
Molte volte, per pigrizia, per paura, per quieto vivere, nella comunità locali non si fa molto perché il cambiamento si realizzi. Si vogliono evitare anche i minimi momenti di conflitto e intanto, tacendo, si frena il cammino della chiesa. Diceva al contrario, Oscar Romero: “Io voglio ringraziare tutti quelli che quando non sono d’accordo con il vescovo hanno il coraggio di dialogare con lui e di convincerlo del suo errore o di convincersi dei propri errori”? È così che la vita comunitaria diviene come una palestra dove ci si allena al serio confronto per raccogliere il “sentire dei fedeli”. Siamo troppo abituati a insegnare ad avere pazienza e a non osare. Ma gli uomini e le donne del nostro tempo le riforme ecclesiali e sociali le attendono oggi. Domani Luisa non lo capisce. Per Luisa domani è oggi. Domani potrebbe essere già tardi per parlarle di speranza e del regno di Dio.

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