Nei sandali degli ultimi

In Terra Santa con Etty Hillesum
Nandino Capovilla - Betta Tusset

PRESENTAZIONE DI
Tonio Dell'Olio

«Ed esse, avvicinatesi, gli strinsero i piedi e lo adorarono» (Mt 28,9).

Che strano modo di adorare e manifestare gioia e affetto a una persona, quello di stringere i piedi. Mi sono chiesto molte volte cosa potesse significare. Molto semplicemente forse è il gesto che urla senza parole la stessa preghiera dei discepoli di Emmaus: «Resta con noi perché il giorno ormai volge al declino». Resta con noi. Stringere i piedi è tentare di immobilizzare l’altro costringendolo a sostare in un luogo. È chiedergli che non si allontani più Nei sandali degli ultimi dalla nostra presenza, che non riprenda il cammino… D’altra parte Maria di Magdala quel gesto dei piedi lo conosceva molto bene. Li aveva bagnati di lacrime, cosparsi di olio profumato, asciugati con i suoi capelli. Non c’è che dire: adorazione. Ma nel senso più profondo e completo del termine. Quel primo gesto aveva significato per lei quasi una benedizione adorante sui piedi che avevano portato il Cristo verso la sua vita stracarica di inadeguatezza e limiti. Questa seconda adorazione chiede al Risorto di restare.
Sappiamo come termina il racconto: Gesù quasi si divincola da quell’abbraccio ma non per tradire l’affetto, quanto per riprendere il cammino. Quel Gesù che aveva vissuto lungo le strade della Palestina non poteva sposare una meta proprio ora che la vita nuova della risurrezione lo aveva regalato definitivamente all’umanità tutta intera. Anche la risurrezione pertanto è una storia con i piedi per terra. Come quella che si dipana nella trama delle pagine che seguono. Dove gli autori si sono posti sulle stesse orme del Cristo e di tutti i poveri cristi che abitano quel fazzoletto di terra che si incunea come una spina nel Medio Oriente.

Cammina. Senza sosta cammina. Va qui e poi là. Trascorre la propria vita su circa sessanta chilometri di lunghezza, trenta di larghezza. E cammina. Senza sosta (C. Bobin, L'uomo che cammina, Qiqajon, Magnano 1998, 9).

Così Christian Bobin descrive il cammino di Gesù.
Lo sforzo, l’agilità, la tensione dell’andare verso, del cercare l’altro tra le pieghe di una Storia condivisa e tra le pietre posate o scagliate su di una Terra che è Santa perché amata dal Padre e dagli uomini che l’hanno abitata un tempo e che la abitano oggi.
Lì, proprio lì e proprio ora, un uomo di oggi, un prete, don Nandino, parroco nell’isola di Murano, segue le orme di chi è andato e va

dritto alla porta dell’umano. E aspetta che questa porta si apra.
La porta dell’umano è il volto. Vedere faccia a faccia, da solo a solo, uno a uno
(Ibidem, 13).

E parte con lo zaino in spalla e un paio di sandali scomodi e irrequieti che si pongono ai piedi suoi e di quelli che egli incontra nel suo cammino di conoscenza e di condivisione di dolori e di speranze.
Don Nandino Capovilla e Betta Tusset ci regalano in questo libro un «pellegrinaggio in Terra Santa» atipico per gli itinerari consueti delle agenzie. Così, mentre don Nandino testimonia la sua esperienza di presenza internazionale in Israele e nelle zone di guerra dei Territori Occupati, Betta Tusset riesce a far calzare un paio di sandali ai piedi di ciascuno e, con un appassionante guizzo letterario, permette anche al lettore di entrare in questo dramma infinito. Qualcosa di più della presa diretta. È l’immersione coinvolgente nella storia di altri che, sin dall’inizio, proviamo a considerare meno «altri da noi».
Don Nandino modula il suo passo, varca le soglie di case e di vite poste al di qua e al di là del Muro guardando la trasparenza dei gesti dell’andare, dell’incontrare, dell’accogliere, del donare... avendo ben presente il pianto, il dolore, il senso della sconfitta e la fame di pace che segna il volto e la vita di tanta gente in quel lembo di terra.

Etty Hillesum diventa compagna di viaggio coraggiosa e dolcissima. Lei che riuscì a denunciare attraverso il paradosso dell’amore a caro prezzo. Etty che andò verso la vita piena proprio quando le circostanze l’avrebbero costretta a stare, a rimanere prigioniera di un immobilismo oscuro e disperato.
Così un prete, un paio di sandali e una giovane martire di Auschwitz sollevano oggi la polvere di quella terra tormentata, sostando in compagnia di pietre vive che insieme a loro non vogliono, non possono tacere le ingiustizie e gli orrori perpetrati da chi ritiene che la sopraffazione e la violenza siano, oggi come ai tempi di Gesù, l’unico e l’ultimo modo per risolvere le controversie tra gli uomini.

Ho conosciuto don Nandino nel cammino di Pax Christi. Non è un reporter di professione, né un nomade a tempo pieno. È parroco a Murano, un’isoletta piccola e fragile della laguna di Venezia, che egli vorrebbe fosse unita da un ponte al mondo intero.
A Murano don Nandino «getta ponti» con il mondo, perché il Vangelo che vuole annunciare è quello di Cristo che «ha abbattuto il muro» di ogni separazione, che impedisce di sedere tutti alla stessa tavola della «convivialità delle differenze» (don Tonino Bello).
«Ponti e non muri», prima di essere lo slogan della Campagna internazionale di Pax Christi di cui don Nandino è referente per l’Italia, è la fortissima presa di posizione di Giovanni Paolo II contro il muro dell’apartheid che continua a essere costruito per mettere in gabbia l’intero popolo palestinese.

Betta Tusset, anche lei attiva nel Punto Pace veneziano di Pax Christi, raccoglie con finezza e intuito femminile tutte le voci, trasformando in racconto anche i rumori dei passi: da quelli pesanti dei soldati a quelli leggeri e pieni di vita della gente comune, vittima che più soffre e paga in questa assurda occupazione militare.
Pax Christi ha scelto con questa Campagna di fare ancora una volta opera di «inter-posizione» nel cuore di un conflitto che a volte assume i contorni nefasti della tragica distruzione di entrambi i popoli «murati vivi». Una paziente opera di sensibilizzazione nelle città e nei piccoli centri, nelle Istituzioni internazionali e nelle comunità parrocchiali, per «camminare in mezzo» al conflitto, smascherando le falsità dei media embedded e raccogliendo dalla voce delle persone la voglia di contribuire anche solo con una cartolina a fare un piccolo passo verso la pace.

Il dialogo che vi condurrà dalle pagine del libro alle penose attese ai check-point, dove la violenza ha sostituito ogni legalità, è serrato e spesso interrotto dai nove metri di cemento che mettono in prigione monsignor Sabbah, presidente internazionale di Pax Christi, e Yonathan Shapira, coraggioso obiettore israeliano che don Nandino intervista per offrire, a chi ancora non «ha saputo», percorsi di una pace possibile.
Per Betta e Nandino sarà come «danzare fuori da un incubo» improvvisando una partita a pallone lungo il muro con i ragazzini palestinesi, sostando con un caffè bollente nei dintorni di Nablus appena emersa dall’assedio, ad ascoltare i racconti delle mamme dei giovanissimi detenuti e la disperazione dei vecchi che non intravedono un domani migliore.

«Danzare la vita», direbbe don Tonino Bello, l’indimenticato vescovo presidente di Pax Christi. Con quella danza nel cuore Nandino e Betta ci accompagnano in questo cammino di speranza.

Note

PAOLINE Editoriale Libri, 2005

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