Per una nonviolenza efficace
meno enfatcia, più calata nella storia
Continua il dibattito avviato nello scorso numero di Mosaico di Pace con l’articolo sulla nonviolenza e la guerra di Stefano Ceccanti, che ha suscitato molte reazioni e commenti da parte dei lettori.
L’ordine dell’assoluto fa male alla nonviolenza. La trasforma immediatamente in materia da massimi sistemi o, al più, per discussioni vagamente moralistiche. La nonviolenza come assoluto ideologico non incide, non cambia, non dà fastidio. È innocua. Neutrale. Rispetto al passato, la cultura ufficiale non rimuove più la sua esistenza.
Al contrario, nei dibattiti, che ritualmente precedono e accompagnano l’esplosione dei conflitti, si riconosce, si accredita, persino si ricerca lo spazio di una diversa razionalità. Il “tu non uccidere” come precetto integrale si è conquistato uno speciale permesso di soggiorno tra gli atteggiamenti da raccontare all’opinione pubblica. Esiste ormai, ma come riserva al massimo per rinchiudere singole coscienze. Si cita, magari anche interloquendovi, ma proprio in quanto assoluto fuori dal reale, e, dunque, come metro per riconfermare che nella realtà reale non c’è che la guerra come strumento unico per la composizione dei conflitti collettivi. Scelta obbligata, in fondo contraddittoria, ma necessaria, inevitabile. Finché la nonviolenza verrà fatta entrare dalla porta dell’imperativo assoluto, la guerra resterà, di fatto, l’unico realismo possibile.
In altri termini, al fondamentalismo della guerra oggi giova che quello della pace sia ridotto a un altro fondamentalismo uguale e contrario. Schismogenesi simmetrica, l’avrebbe chiamata Bateson. Il gioco del doppio tra la realtà e l’utopia. Gioco truccato perché si sa sempre chi vince.
Nel cuore dei conflitti
Tolstoj, pur restando una straordinaria fonte di ispirazione per i valori che muovono alla ricerca della purezza, non è di molto aiuto, in questa fase almeno. Il terreno su cui può concretamente crescere la nonviolenza, varcando la soglia di una tolleranza culturale falsa e ipocrita (la lezione di Pasolini), non può che essere quello dell’efficacia. Piuttosto che la fermezza ieratica di Tolstoj, ci è utile l’inquietudine attiva della Simone Weil. La sua irreprimibile attitudine a sporcarsi di strada, a entrare nelle contraddizioni, ad agire i conflitti dall’interno per sperimentare la possibilità di attivare energie più profonde, dinamiche più efficaci, alternative possibili.
Tra l’altro, per lo stesso Gandhi la nonviolenza non era una verità data ma una ricerca incessante, un laboratorio continuo, esposizione e rischio. La verità è il punto di fuga verso cui orientare il cammino non il suo punto di partenza. Una ipotesi, una scommessa più che una tesi, una certezza. Se è corretto questo approccio, allora la legittimazione della nonviolenza non deriverà al capolinea di un itinerario teorico e astratto, ma dalla concreta pratica dei conflitti. Dalla frequentazione, e non dall’elusione, di quel campo di forze in cui prendono corpo e interagiscono le spinte collettive fino a produrre cultura e senso comune.
È ora, insomma, di passare da una nonviolenza ideologica a una più sobria, meno enfatica, più efficace. Una nonviolenza storica, che maturi dai fatti e dagli eventi, seguendo, come sempre avviene nella storia, un percorso accidentato e imprevedibile. Nel salotto della discussione sulla guerra giusta, la parola è divenuta sterile, non germina dinamiche, energie. Bisogna rompere il gioco delle parti, non stare ai ruoli assegnati. Bisogna decidersi a invadere lo spazio della politica.
È nello spazio della politica che si deve detronizzare la sovranità della guerra. Non so se l’intervento in Kossovo sia stato in quel preciso momento storico ineluttabile anche per lo stesso governo di centrosinistra. Il problema non è se tenersi le mani pulite o sporche rispetto alla guerra. Se assumersi o meno le responsabilità dinanzi al grido di dolore di popoli interi senza cittadinanza nel disordinato mondo di oggi. L’alternativa alla guerra non è la passività, la nonviolenza dei deboli, avrebbe ricordato Gandhi. Non è questo, in fondo, il problema cruciale per la nonviolenza.
È come discutere di tossicodipendenza partendo dalla scelta sulla “riduzione del danno”. Certo, esiste il problema di cosa fare quando si è dinanzi a una mattanza. Ma è una questione conseguente all’esplosione del conflitto. E i conflitti esplodono quando la politica fallisce. La questione principale di un conflitto è perché esplode. Ad esempio, la guerra del Kossovo è stata a lungo annunciata nell’indifferenza generale e neanche successivamente la politica sta producendo grandi sforzi per tradurre la fine della guerra in una pace vera. Il problema cruciale è questo. Che l’opzione della pace non ispira l’azione della politica nella visione dei conflitti. E che, quindi, quest’ultima continua a disporsi con schiena curva al dominio della guerra.
L’ambito del possibile
Il problema principale non è più, oggi almeno è chiaro, se sia giusto o meno dividere o meno i contendenti. Ma se la politica ha preso coscienza che la pace è l’unica risorsa reale per risolvere i conflitti reali di oggi, il suo senso unico e obbligato per costruire il futuro. A me pare di no.
Di qui occorre ripartire per rimettere in gioco la nonviolenza.
Riverificando l’efficacia della guerra di fronte ai conflitti reali, concreti, storici di questo tempo. Oserei dire con don Milani, dimostrando che non è dato un caso che è uno, dell’ultimo decennio, quello dopo il crollo del muro, di una guerra vera che la politica (in fondo, la principale arma della pace) non avrebbe potuto non solo evitare ma anche più efficacemente risolvere.
È chiaro che la politica non è il solo regno della volontà, ma anche quello della possibilità. Ma l’impressione è che la politica non abbia ancora assorbito la consapevolezza dell’inefficacia della guerra, specie nell’ultimo formato preventivo, rispetto alla nuova natura dei conflitti di oggi.
È insopportabile la divaricazione che separa lo spazio della testimonianza, il “fuori l’Italia dalla guerra” per intenderci, da quello delle istituzioni, la “guerra dolorosa e necessaria” per intenderci. Da una parte, la rivendicazione di un orizzonte di pace che prescinde dalla mediazione del governo, dall’altra un’azione di governo, che, specie sui temi internazionali e della pace, non ammette margini di discussione perché obbligata dai vincoli, percepita come impermeabile ai poli e alla politica, bipartizan e blindata.
Tutto continua a ruotare attorno al nodo senza scioglierlo. Eppure sappiamo che il processo di globalizzazione è già giunto al bivio tra un futuro aperto, inclusivo, sostenibile e uno emarginante, predatorio, insostenibile. Non c’è una sola globalizzazione possibile. E non tutte sono egualmente compatibili con un’idea positiva di valori. La questione della nonviolenza non è altra cosa rispetto alla scelta cruciale sul futuro e, dunque, al centro della politica. È questa scelta che dispone i paradigmi, gli atteggiamenti, gli sguardi, perfino gli stati d’animo.
Se si riuscisse a rimisurare la politica partendo dal suo bivio cruciale, il dibattito sulla nonviolenza diverrebbe molto più costruttivo, concreto, interessante. E indispensabile per ricostruire l’alterità politica dell’idea di cambiamento di cui vuole essere interprete il centrosinistra.
Ad esempio, piuttosto che scavare la trincea attorno all’art. 11 per arginare il torrente eversivo e bellicista che si sta abbattendo nell’Italia leghista e berlusconiana, dovremmo, al contrario, rilanciare lo spirito di quello straordinario articolo della Costituzione, non tanto come limite o divieto ma come concezione moderna e positiva del ruolo geopolitico che spetta all’Italia. Ripudia la guerra non come espressione di una comoda neutralità rispetto ai conflitti ma come impegno a costruire il suo contrario. Noi ripudiamo la guerra perché siamo impegnati, con la politica, a giocarci un diverso ruolo.
È vero che anche il nostro Paese vive la restrizione dei vincoli che si è dato nelle relazioni internazionali, ma è anche vero il contrario: proprio il suo integrale coinvolgimento in processi sovranazionali rende il nostro Paese partecipe di nevralgiche scelte globali. In qualche modo, anche l’Italia è, ormai, un attore globale con molte più opportunità del passato di concorrere alle scelte internazionali. Su tutto questo si balbetta appena, dentro e fuori la politica.
Sull’Europa, il suo senso e la sua alterità rispetto all’unica potenza globale statunitense. Ecco, spingere la politica più consapevolmente verso l’opzione della pace è più importante che proseguire la tenzone sulla guerra giusta. Una volta intrapresa la strada della pace, magari sarà più facile discernere la polizia dall’esercito, la tutela dell’ordine collettivo da un’azione militare, la legittima difesa dall’attacco preventivo e l’ingerenza umanitaria (che, com’è ormai evidente, si può esercitare in moltissimi altri modi) da una guerra vera.