ECONOMIA

Stiglitz: serve più giustizia sociale

Economista e premio Nobel, in prima fila
contro una globalizzazione che taglia il Welfare.
Marco Calò

Se a dirlo non sono più soltanto new global e movimenti sociali, ma un premio Nobel per l’economia, per altro già vicepresidente della Banca Mondiale, allora la cosa è proprio seria: occorre tornare a mettere al centro della politica il nodo irrisolto della giustizia sociale. Parola di Joseph Stiglitz, professore nei più prestigiosi atenei statunitensi (Yale, Stanford, Princeton e attualmente alla Columbia University), consigliere economico dell’amministrazione Clinton, insignito del Nobel nel 2001 e con un passato, appunto, ai vertici della Banca Mondiale.
Una lunga esperienza tra Casa Bianca e istituzioni internazionali che si riversa nel suo libro più noto e controverso, La globalizzazione e i suoi oppositori. “La ragione per cui ho scritto questo libro, afferma Stiglitz nella presentazione, è che, mentre mi trovavo alla Banca Mondiale, ho preso atto in prima persona degli effetti devastanti che la globalizzazione può avere sui Paesi in Via di Sviluppo e, in particolare, sui poveri che vi abitano. Ritengo che la globalizzazione, ossia l’eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione tra le economie nazionali, possa essere una forza positiva e che abbia tutte le potenzialità per arricchire chiunque nel mondo, in particolare i poveri. Ma perché ciò avvenga, è necessario un ripensamento attento del modo in cui essa è stata gestita, degli accordi commerciali internazionali che tanto hanno fatto per eliminare quelle barriere e delle politiche che sono state imposte ai Paesi in Via di Sviluppo durante il processo di globalizzazione”.
Stiglitz è stato anche di recente in Italia. E ai parlamentari del centrosinistra che l’avevano invitato a parlare a Montecitorio ha mandato un messaggio chiaro: compito prioritario della politica è intervenire sulle storture della globalizzazione economica nella chiave della giustizia sociale.
E se questo vale per le politiche interne ai Paesi ricchi, a maggior ragione vale per quelli poveri: “Troppo spesso i governi dei Paesi avanzati (Stati Uniti in primis) e le istituzioni economicofinanziarie internazionali (FMI e BM) non considerano le ripercussioni che si determinano in una società quando si applicano certe scelte politiche. Non ci siamo chiesti con sufficiente attenzione come queste agiscono sui Paesi più poveri, limitando lo studio degli effetti su economie forti, come quella statunitense o di altri Paesi industrializzati. Nel tempo abbiamo dovuto prendere atto che molte delle politiche economiche adottate per i Paesi in Via di Sviluppo hanno prodotto maggiore povertà”.

ACCADE NEGLI USA…
Un Pil che cresce del 3%. Un’inflazione quasi ferma. E la disoccupazione al 6%. Sembra che le cose abbiano ripreso ad andar bene per l’economia americana. Eppure dietro questi dati la realtà è ben diversa. E a pagare sono ancor più che in passato le classi povere. Perché se è vero che i disoccupati sono percentualmente meno di quelli europei, è anche vero che nei due anni dell’amministrazione Bush sono stati licenziati due milioni di americani. E il tasso dei senza lavoro sale a quasi il 12% fra gli afroamericani, che contano anche tassi di scolarizzazione decisamente più bassi dei bianchi. Quasi un milione e mezzo di persone sono finite sotto la soglia di povertà, anche grazie ai pesanti tagli all’assistenza voluti dalla Casa Bianca.
D’altra parte, tagli alle tasse e investimenti nell’industria bellica hanno prodotto finora un buco di 200 miliardi di dollari: una follia, se si pensa che Clinton aveva lasciato un attivo di bilancio superiore ai 230 miliardi. E al deficit federale si somma quello di molti Stati, costretti così a tagliare proprio le spese sociali, dalla scuola all’assistenza. In crisi sono ormai anche gli Stati più grandi e ricchi dell’unione. E se la politica fiscale di sgravi ai ceti medi e medioalti da parte dei repubblicani farà mancare alle casse statali 1.300 miliardi di dollari in dieci anni, è facile intuire che cosa attende il Welfare americano. Si ripropone, su ampia scala, il disegno perseguito fin dai tempi di Reagan. Un’amministrazione come quella di George W. Bush, che deliberatamente dissangua le casse statali proprio mentre cresce il bisogno di spese sociali, che mette nel mirino i programmi sanitari e quelli per gli anziani, è lo specchio di una società dove la concentrazione del denaro e del potere aumenta progressivamente. E dove la vita politica e quella dei media sono ormai letteralmente dominate dalle lobby economicamente più forti. Ecco perché il modello statunitense piace tanto a qualcuno anche in Italia.

Questo perché sono FMI e BM a “dettare certe opzioni, imponendo non solo i requisiti per la concessione dei crediti, ma stabilendo anche modalità e tempi di intervento”. Nulla di più sbagliato, assicura Stiglitz, “poiché quando a un Paese in difficoltà si dice ‘avete 60 giorni per cambiare il vostro sistema pensionistico’ quale clausola per ottenere i finanziamenti, non si considera che si mette seriamente a repentaglio la stabilità democratica di quei Paesi”.
E i casi emblematici sono Argentina e Cile. Troppo incline a subire i diktat delle istituzioni finanziarie internazionali, il governo di Buenos Aires ha fatto precipitare il Paese in una crisi senza precedenti. “Mentre il Cile ha deciso di agire seguendo una tabella di marcia diversa: non ha liberalizzato il mercato finanziario, senza esporsi quindi alle scorribande degli speculatori, non ha privatizzato le industrie statali, la scuola e la sanità. Tutto ciò non ha determinato un aumento della disoccupazione” e di conseguenza del conflitto sociale.
Il guaio è che anche molti Paesi amministrati da go verni progressisti o “socialdemocratici” hanno permesso al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Mondiale di imporre politiche che mai avrebbero accettato in casa propria. “Non penso è l’opinione di Stiglitz che sia legittimo che istituzioni finanziarie internazionali spingano a privatizzare certi servizi essenziali come la previdenza sociale. Un fatto, questo, che ha contribuito fortemente a indebolire un’economia già di per sé fragile come quella argentina”. Anche la deregulation dei mercati può determinare effetti negativi. Negli anni ‘80, ricorda Stiglitz, gli USA adottarono la deregulation nel sistema creditizio. “Il ri sultato fu disastroso, costò miliardi di dollari che gli Stati Uniti riuscirono ad assorbire solo per la solidità del sistema economico. Un Paese in Via di Sviluppo lo avrebbe pagato con la bancarotta, eppure il FMI continua a pretendere un allentamento dei vincoli di mercato”.
Come dimenticare, inoltre, che “nel Fondo esiste un solo Paese, gli USA, che hanno il potere di veto. Una sorta di G1”, ironizza Stiglitz. “Almeno nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU le nazioni che hanno questo potere sono cinque…”. Insomma, inutile parlare di una reale governance della globalizzazione se non si parte di qui.

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