MEDIO ORIENTE

Le armi di Israele

Le Forze Armate israeliane dipendono in gran parte
da tecnologie e aiuti forniti dal governo di Washington.
Achille Lodovisi

Molti dei mezzi e delle infrastrutture necessari alle operazioni delle IDF, le Forze Armate israeliane, provengono dagli Usa o sono realizzate in Israele grazie agli aiuti finanziari e tecnologici statunitensi e in minima parte tedeschi. Questo influenza le scelte di Tel Aviv in materia di politica militare e di bilancio per la difesa. Una delle condizioni poste negli ultimi anni dagli Usa per incrementare gli aiuti all’apparato bellico prevedeva l’aumento delle spese militari israeliane; nel novembre del 2000, ad esempio, l’amministrazione Clinton avanzò una richiesta in tal senso prima di procedere alla presentazione al Congresso Usa di un pacchetto di finanziamenti straordinari (450 milioni di dollari) sotto forma di sovvenzioni destinate a programmi militari legati al ritiro dal Libano meridionale.

Budget di guerra
Una condizione che era in perfetta sintonia con quanto dichiarato dal capo di Stato Maggiore delle IDF, Shaul Mofaz, di fronte a una ventilata riduzione del bilancio militare in seguito al ritiro dal Libano e a un possibile accordo con i Palestinesi. Per Mofaz la diminuzione del budget avrebbe significato minori capacità difensive (less budget means less defense).
I vertici militari già dal 6 agosto 2000 – più di un mese prima che iniziasse la nuova Intifada in seguito alla visita di Sharon alla spianata delle moschee di Gerusalemme (28 settembre) – chiedevano un incremento significativo del bilancio militare (244 milioni di dollari) mentre ancora erano vive le speranze di giungere a un accordo. In seguito, simili richieste si sono susseguite fino a diventare uno dei maggiori motivi di frizione tra le IDF e l’allora primo ministro Barak, inizialmente poco incline ad accettarle.
Sin quando il bilancio militare per il 2000 salì a 9,4 miliardi di dollari rispetto agli 8,8 dell’anno precedente. L’incidenza delle spese militari sul PIL è rimasta invariata (8,9%), grazie a un aumento del PIL pari al 6%, ma l’indicatore del loro andamento pro capite è invece salito a 1.512 dollari nel 2000 rispetto ai 1.465 dell’anno precedente.
La grave crisi economica odierna, che ha comportato un brusco rallentamento della crescita, accentuerà il peso delle spese militari sul bilancio dello Stato e sull’economia israeliana. Nella regione del Vicino Oriente solo Qatar, Kuwait e Emirati Arabi Uniti presentano un indice di questo tipo. Nel maggio 2001 il governo Sharon ha proceduto a un ulteriore aumento di 732 milioni di dollari delle spese militari, 450 dei quali provenienti dalle sovvenzioni straordinarie accordate dal Congresso Usa per il ritiro dal Libano meridionale.
Nonostante si sia affermata, dopo anni di declino, la tendenza all’aumento del bilancio della difesa, difficilmente l’incidenza delle spese militari sul PIL potrà ritornare ai livelli del 1985, quando era pari al 21,2% e l’economia israeliana era ormai prossima al tracollo. Il peggio fu evitato proprio grazie alle massicce sovvenzioni elargite da Washington.
(C) Lucio Osseri/Archivio Mosaico di Pace
Verso il baratro
Il governo di Tel Aviv dal 1990 al 1995 ha ricevuto sistemi d’arma già schierati dalle Forze Armate Usa in Europa e da queste smobilitate in seguito agli accordi del 1990 per la riduzione degli armamenti convenzionali presenti sul continente europeo (CFE) e alla fine della Guerra Fredda. Il valore complessivo dei mezzi trasferiti gratuitamente a Israele è giunto a 717,7 milioni di dollari.
Questi flussi gratuiti di mezzi bellici hanno alimentato rivalità e corse agli armamenti in diverse regioni del mondo: nel vicino Oriente tale dinamica si è manifestata anche nel caso di Israele ed Egitto, quest’ultimo ‘beneficiato’ con trasferimenti per un valore complessivo di 380,5 milioni di dollari. Le armi della Guerra Fredda in Europa, invece di essere smantellate e distrutte, sono andate ad alimentare altri conflitti e tensioni seguendo spesso le direttrici del trasferimento di produzioni armiere da parte delle corporations statunitensi. Israele ha ricevuto, tra l’altro, 48 elicotteri d’attacco, 485 veicoli corazzati per il trasporto truppe, 78 cacciabombardieri, quasi 65.000 fucili mitragliatori M16 e 2.500 lancia granate. In Egitto sono giunti 1.040 carri armati, 498 veicoli trasporto truppa corazzati, 5.000 lancia granate e 10.000 fucili mitragliatori M16.
Gli Stati maggiori israeliani ritengono che l’attuale conflitto rappresenti il banco di prova per l’impiego di sistemi d’arma progettati e costruiti nell’ottica di uno scontro convenzionale con apparati militari paragonabili alle IDF in uno scenario ‘asimmetrico’, caratterizzato dalla presenza di un nemico – le organizzazioni terroristiche – che non impiega gli stessi mezzi e le stesse impostazioni operative di un esercito regolare, comportandosi quindi in maniera ‘non proporzionata’ né prevedibile.
Sin dai primi giorni della campagna militare in corso, i vertici politici e militari israeliani hanno dichiarato che gli obiettivi da perseguire sul campo erano due: la distruzione dei vertici delle organizzazioni terroristiche e la disarticolazione delle infrastrutture sulle quali possono contare queste ultime. Se nel primo caso gli intendimenti si sono concretati in una serie di assassinii politici o, se si preferisce, di esecuzioni extragiudiziali, nel secondo le infrastrutture colpite sono state di fatto quelle che consentono la sopravvivenza di intere comunità.
Del resto i fatti stanno dimostrando che l’occupazione dei territori palestinesi non ha fermato le attività dei gruppi terroristi; molti ritengono l’impiego dei sistemi d’arma e degli apparati militari concepiti per essere schierati contro avversari ‘tradizionali’, ossia Forze Armate di Stati-Nazione nemici, assolutamente inefficaci per affrontare le reti terroristiche; questo limite sarebbe evidente anche in presenza di dottrine d’impiego ‘innovative’, che tentano di conciliare operazioni più consone alla mentalità e all’addestramento di forze speciali di polizia con la struttura operativa di un esercito.
Lungi dall’essere efficace contro il nemico dichiarato, la guerra in corso dispiega la sua forza distruttrice soprattutto contro la popolazione inerme, togliendole qualsiasi possibilità di poter organizzare un sistema di vita e condizioni sociali minimamente accettabili, lasciando quali alternative o l’ingresso nel ciclo distruttivo del conflitto senza fine (kamikaze-rappresaglia), oppure l’esilio volontario. Sull’altro versante del fronte, la linea della soluzione militare del problema sospinge la popolazione israeliana nel baratro di un arroccamento e di una completa estraniazione rispetto al territorio e alla popolazione circostanti; le barriere di questa fortezza però non sono e non potranno mai essere a tenuta stagna.
(C) Angelo Garofalo/Archivio Mosaico id Pace
Le armi in campo
A partire dal 1999 è stato adottato un programma decennale di ammodernamento delle IDF, denominato ERA, volto a incrementare le capacità di intervento aereo in profondità nel territorio nemico, si è pianificata l’acquisizione di sistemi radar installati su aerei per l’allarme aereo precoce (AEW) e il controllo del territorio e di elicotteri d’attacco. Complessivamente il piano appare ispirato a una logica offensiva, ispirata alla nuova dottrina elaborata proprio nel 1999, nella quale gli attacchi improvvisi e ‘preventivi’, tipici del modus operandi delle IDF, si associano a un rinnovato impegno per realizzare un controllo pieno degli insediamenti. Larga parte delle risorse impiegate proviene dagli aiuti ‘supplementari’ accordati in seguito agli accordi di Wye. Tuttavia Israele ha chiesto agli Usa di mettere a punto un nuovo memorandum of undestanding che definisca le relazioni strategiche tra i due Paesi in campo militare-industriale sostituendo il precedente accordo risalente al 1988.
La ristrutturazione in corso cerca di dare una risposta anche alle preoccupazioni più volte espresse dai vertici militari di Tel Aviv: una minore capacità dell’industria nazionale di fornire sistemi sempre all’avanguardia secondo i criteri operativi, il diffondersi di nicchie di privilegio tra gli ufficiali, le indebite ingerenze del mondo politico, industriale e religioso nell’organizzazione militare, l’eccessiva ‘sensibilità’ nei confronti delle perdite umane subite e i frequenti problemi morali che insorgono tra le truppe inviate nei territori palestinesi.
Sul versante delle relazioni con gli Usa, i vertici militari israeliani alla fine del 1999 si dicevano preoccupati per l’eventuale riduzione dei programmi di collaborazione militare industriale e per le iniziative statunitensi in materia di trattati di non proliferazione nucleare, missilistica, chimica e biologica. Molte di queste perplessità sono svanite di fatto con l'insediamento dell’amministrazione Bush.
Per quanto concerne l’arsenale, se oggi si confrontano le dotazioni delle IDF con quelle delle Forze Armate dei Paesi arabi che confinano con Israele – Egitto, Siria, Libano e Giordania – la superiorità qualitativa di Tel Aviv appare evidente. Solo nel caso dei carri armati si può registrare un sostanziale equilibrio tra i due schieramenti grazie soprattutto alle forniture Usa all’Egitto. La superiorità israeliana è schiacciante per quanto riguarda i veicoli corazzati per il trasporto delle truppe, mentre i Paesi arabi sono – se considerati tutti assieme – numericamente e qualitativamente leggermente superiori nelle artiglierie.
Ma è nei cieli che il dominio qualitativo israeliano è indiscutibile: 383 caccia tecnologicamente avanzati (F16 e F15 nelle diverse versioni e F4 2000), a fronte di 262 velivoli dei Paesi arabi, 76 dei quali di fabbricazione ex sovietica, inferiori rispetto ai caccia di progettazione statunitense. Considerazioni analoghe valgono per gli aerei da ricognizione, guerra elettronica, allarme precoce e intelligence, gli elicotteri d’attacco e da trasporto e in generale per le capacità operative delle forze terrestri e aeree.

Il riarmo continua
In mancanza di uno scontro diretto con gli Stati arabi un simile armamentario viene impiegato massicciamente contro la popolazione civile palestinese e forze dotate solo di armi leggere. Di fronte a questa evidente sproporzione, non bisogna dimenticare che una delle richieste più pressanti rivolta dai vertici militari d’Isreale al mondo politico del loro Paese è quella di ripristinare un elevato grado di preparazione al combattimento nelle IDF. Infatti la tipologia di operazioni condotte nel corso della prima Intifada e dell’occupazione del Libano meridionale è oggi ritenuta inefficace per assicurare l’addestramento alla guerra moderna: occorreva quindi la sperimentazione di tattiche e strategie asimmetriche che mettessero nuovamente alla prova le capacità di mobilitazione, la mobilità e la prontezza dell’apparato militare.
La maggior parte dei sistemi d’arma acquisiti da Israele dal 1999 al dicembre 2001, nel periodo in cui sono venute maturando tali scelte operative, è stata fornita dagli Stati Uniti. Dai primi mesi del 1999 all’autunno del 2000, sono stati perfezionati quasi esclusivamente accordi per l’esportazione di grandi sistemi d’arma e loro dotazioni (aerei F16 e F15, elicotteri AH 64, missili aria-terra, motori aerei e per carri armati, bombe a guida laser, munizionamento). Nell'autunno-inverno tra il 2000 e il 2001, in coincidenza con la ‘militarizzazione’ della risposta all’Intifada, accanto ai sistemi d’arma figurano mezzi di trasporto per i corazzati, attrezzature logistiche, materiali di consumo e sussistenza, apparati di telecomunicazione, equipaggiamenti per una continua presenza operativa e di presidio sul campo.
Tra gli aiuti forniti in precedenza, nel periodo 199698, dagli Usa a Israele figurano anche gas tossici da impiegarsi in operazioni antisommossa, 28 milioni e mezzo di proiettili, 13.000 fucili e 32 lanciagranate, dotazioni che hanno trovato impiego contro la popolazione civile palestinese.

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