Quei diritti attaccati
La destra italiana all’attacco su tutta la linea.
Da molte settimane (e forse per molte settimane, mesi, anni ancora) partiti, sindacati, associazioni, enti locali, tentano di sensibilizzare l’opinione pubblica sul fatto che nella finanziaria per il 2003 è prevista una tale quantità di tagli agli enti locali da avere conseguenze dirette sulla qualità e quantità dei servizi erogati da questi ultimi (che sono la maggior parte).
Si tratta di una questione più che vera e di una concretezza drammatica: togliere soldi agli enti locali significa tagliare le braccia a tutte le strutture che erogano servizi, oppure costringere i comuni e le regioni ad aumentare le tariffe, o le tasse locali. Il trucco è evidente e lo hanno raccontato in tanti: raccontare che si mantengono le promesse elettorali (il taglio delle tasse) e rimandare ad altri (i comuni) l’onere di alzare le tariffe o ridurre i servizi.
E non è tutto, lo sappiamo già, il taglio delle tasse coincide con la reintroduzione del ticket sui farmaci, con la non abolizione di quelli sulle prestazioni specialistiche. Il giochetto, insomma è solo contabile, ci vorrà tempo, ma se ne accorgeranno in molti. Certo, per la mancanza di soldi a fine mese la colpa si potrà sempre dare all’aumento dei prezzi o alla congiuntura economica.
A tutela dei ricchi?
Ma l’attacco ai diritti portato avanti da questo governo – e da molti altri governi europei, di diversi schieramenti politici – è molto più profondo e va analizzato da vicino. La prima cosa da dire è relativa a chi potrebbe colpire questo provvedimento. Quali saranno i primi servizi a saltare? Semplice, quelli rivolti alle persone che non votano, non protestano e in alcuni casi non cercano il servizio, ma da questo sono cercati: gli immigrati, i richiedenti asilo, le prostitute vittime di tratta, i senza fissa dimora, i tossicodipendenti, tanto per fare qualche esempio.
Questo tipo di servizi, sempre carenti e a singhiozzo, finiranno col diventare facoltativi: se e quando ci sono dei problemi ci penserà la carità. Non è un passo indietro da poco. Nell’ultimo decennio una dei pochi fatti positivi relativi alla tutela dei diritti è stato il prendere atto che queste persone (che non sono categorie) sono portatori di bisogni specifici che vanno riconosciuti come diritti. Ma il discorso è più complesso. Tagliare le tasse fa il pari con altre due cose: trasferire risorse ai privati e coinvolgere il privato erogatore di carità. Uno degli strumenti scelti è quello di buoni, bonus fiscali e convenzioni.
Un esempio: la regione Lombardia (ma leggi simili sono state approvate o sono in discussione in molte altre regioni) ha erogato quest’anno dei buoni scuola per 30 milioni di euro, il 99% di questi ad alunni delle scuole private, che hanno ricevuto un assegno medio cinque volte più alto di quello degli alunni delle pubbliche. Questo regalo alle scuole private viene venduto come incentivo al diritto allo studio. Si tratta di un fatto incredibile, se si pensa che in media il 20% degli edifici scolastici ha bisogno di riparazioni e che molte famiglie hanno difficoltà a comprare i libri per mandare i figli a scuola (la legge lombarda prevede invece che, per ottenere il buono, si spenda una cifra che, di media, un alunno della scuola pubblica non spende: per avere il buono devi avere un reddito medio alto).
Altri esempi sono quelli della sanità, della promozione dei mercati dell’assistenza. In quest’ultimo caso, gli enti locali erogano buoni che i cittadini spendono per ottenere assistenza domiciliare. Naturalmente chi al buono può aggiungere altro contante può comprare un servizio migliore. Inoltre, succede che le cooperative sociali si mettano in concorrenza tra loro e, su un mercato così delicato come questo, il rischio è che gli investimenti li facciano in pubblicità e sconti, anziché in qualità del servizio, formazione degli operatori e tutela del lavoro.
Una falsa carità
Insomma, una mano smette di prenderci i soldi dalle tasche, un’altra regala i pochi che ci sono al mercato. E poi? Poi c’è il terreno più ambiguo, delicato e anche furbo. Quello delle donazioni, della carità istituzionalizzata. Se certi servizi e tutele non sono diritti ma carità, è possibile che privati cittadini, imprese e multinazionali scelgano di donare dei soldi. Anche in questo caso la donazione implica una diminuzione del gettito fiscale, un’entrata in meno per le istituzioni.
Ma c’è di più. Qual è l’idea di fondo che sta dietro tutto questo? Che i diritti non sono affare delle istituzioni. Che ci deve pensare la società attraverso la sua opera volontaria. Ma la carità e il volontariato non devono (e non possono) garantire dei diritti. Se uno fa il volontario, non è detto che possa sempre, che ci sia quando il bisogno si manifesta: magari, quel giorno e a quell’ora sta lavorando. E non è detto che un’organizzazione di volontariato abbia le risorse (e le competenze) per rispondere a un’esigenza o a un’emergenza quando questa si manifesta. Non è possibile pensare di garantire la sanità pubblica o la scuola per tutti (e allargare la sfera dei diritti esigibili) senza partire dalle risorse. E queste non si rastrellano chiedendo agli italiani di comprare una pianta ogni domenica, di versare un obolo o vendendo magliette a un banchetto.
Ma non è solo questo, c’è anche un elemento simbolico e non è un fenomeno solo italiano. Ci sono agenzie dell’Onu che lavorano con le multinazionali, da queste prendono soldi e grazie a questi possono, magari, dare da mangiare ai profughi di un Paese qualsiasi. Ora (sarà un caso?) le multinazionali che per prime si sono affrettate a partecipare a questi programmi sono le stesse che sono state oggetto di Campagne di boicottaggio che avevano macchiato la loro immagine (che così cara gli costa). Ecco allora che la Mc Donalds, la Nestlè, la Nike, la Shell, si mettono a spendere soldi, chi per i diritti del lavoro, chi per l’ambiente, chi per nutrire i bambini affamati.
Arci, Arci servizio civile, Associazione Ambiente e Lavoro, Associazione Finanza Etica, Aon, As-sopace,
Campagna per la riforma della Banca Mondiale, Cittadinanzattiva, Cocis, Cnca, Ics,
Ctm-Altromercato, Donne in nero, Emergency, Legambiente, Lila, Lunaria, Mani Tese, Msf,
Pax Christi, Uisp, Uds, Udu, Wwf.
La sede è presso Lunaria, Via Salaria 89 – 00198 Roma
e-mail: sbilanciamoci@lunaria.it.
Allo stesso modo, in forma meno pomposa, nella tutela dei diritti garantiti tradizionalmente dal welfare (e quelli da garantire) il rischio è quello che, oltre a contribuire alla loro negazione, le donazioni servano anche a pulire un’immagine del mercato che da qualche anno a questa parte si è un po’ appannata.
In Europa
Ma si potrebbe fare altrimenti? Non ci sono il patto di stabilità europeo, un’ondata neoliberista che spazza via tutte le tutele esistenti, una drammatica scarsezza di risorse? Se non si impedisce a Tremonti di sfasciare le casse dello Stato a colpi d’ascia è possibile che l’ultimo punto sia reale. Per quanto riguarda il resto, i soldi ci sono o si potrebbero fare. Sbilanciamoci propone di aumentare le tasse per lo scaglione di reddito più alto, di tagliare le spese militari, di far partire la Tobin Tax dall’Italia (c’è una proposta di Attac che verrà discussa alla Camera a febbraio).
Questo consentirebbe di drenare risorse per 6200 milioni di Euro. E poi, l’Italia, in Europa (quello stesso continente per stare nel quale occorre rispettare gli accordi sottoscritti), spende meno della media per scuola e sanità e meno di tutti per assistenza e ambiente. L’unica nella quale primeggiamo (assieme a francesi e inglesi) sono le spese militari (che aumentano costantemente dal 1999 a oggi di una media del 6% l’anno – quest’anno un po’ meno per via della crisi).
Lo spazio quindi c’è, i soldi si possono trovare e si possono cercare. Certo, occorrerebbe cambiare priorità, non avere una scena politica nella quale la competizione è su chi abbassa di più le tasse e rimettere al centro il tema dei diritti di tutti. In tanti, a Firenze, nella quotidianità, nelle fiaccolate per la pace, stanno lavorando perché sia così, ma non è un’impresa facile.