POLITICA

Oltre il "pensiero unico"

Colloqio con l’ex ministro della sanità sui diversi atteggiamenti
di destra e sinistra nei confronti del Welfare State.
Intervista a Rosy Bindi

Nel suo ultimo libro, Ermanno Gorrieri sostiene che anche le forze di centrosinistra in questi ultimi anni sono state contagiate dall’idea che tutti gli strati sociali, con la sola eccezione di una ristretta area di poveri, abbiano raggiunto un elevato livello di benessere. Il risultato è che gli stessi governi di centrosinistra, nell’ultima fase, hanno conosciuto una vera e propria deriva neoliberista. Che cosa ne pensa?

Non si può parlare di vera e propria deriva neoliberista anche per l’Ulivo: mi pare francamente eccessivo. Piuttosto, credo che si sia verificata una sorta di sudditanza nei confronti di quello che Prodi ha recentemente definito “pensiero unico”. Ovvero quell’approccio politico e culturale fortemente suggestionato dai miti e dalle parole dell’ordine degli anni Ottanta e Novanta: individualismo, competizione, privatizzazione, “meno tasse più libertà di scelta”.
Questo vale in particolare per una parte della sinistra che ha assunto questo orizzonte come l’unico possibile e ha finito per interpretare la propria funzione come quella di alfiere della modernizzazione del Paese. E in questo modo si è cercato di accreditarsi nei confronti dei nuovi ceti medi più dinamici e spregiudicati. Nei fatti, però, questo atteggiamento non ha comportato scelte concrete di stampo neoliberista. Il processo di smantellamento dello stato sociale è opera del Governo Berlusconi e sarebbe un errore non cogliere la profonda diversità con i Governi dell’Ulivo.
Semmai, nell’ultima parte della legislatura, il centrosinistra non ha avuto abbastanza coraggio riformista, non ha insomma fatto quella “operazione verità” sul rapporto tra pressione fiscale e giustizia sociale che avrebbe, a mio avviso, marcato con maggiore nettezza la qualità del nostro riformismo. Invece di sfidare la destra sul terreno della diminuzione delle tasse avrebbe dovuto lanciare la sfida per il rafforzamento dello stato sociale rilanciando il tema della redistribuzione della ricchezza. Da questo punto di vista c’è stata una certa “timidezza riformista” e non abbiamo investito con sufficiente energia sul consolidamento di alcune riforme, dalla sanità alla scuola, avviate in precedenza.

Le richieste che arrivano da molte parti e dai nuovi soggetti sociali (dai new global ai lavoratori della Fiat in crisi agli atipici) esprimono anche una fortissima domanda di maggiore giustizia sociale. Quale risposta trovano nella politica, e in un cattolico che fa politica?

Credo che i giovani possano tornare ad avere fiducia nella politica se questa si riappropria del compito di perseguire il bene comune. Se torna a essere autorevole e libera, capace, insomma, di rivendicare il proprio primato sull’economia e “governare” il mondo degli interessi. Il compito di un cattolico impegnato in politica è quello di dimostrare la coerenza tra i valori della solidarietà, della pace, della promozione e dignità umana, che sono parte integrante della propria ispirazione religiosa, e le risposte concrete ai problemi della società.
Questa coerenza è messa costantemente alla prova dalle novità, dalle contraddizioni e dalle sconfitte della storia ma anche, paradossalmente, dai risultati raggiunti. Bisogna vivere la politica sentendo che non si è mai pienamente appagati da ciò che di buono si è riusciti a fare, perché sarà sempre un traguardo parziale e provvisorio. Oggi, poi, è richiesto uno sguardo più lungo e una speranza più salda. Anche se la politica appare spesso debole e inaffidabile, subalterna alle logiche di una globalizzazione selvaggia, non è giusto ripiegarci in noi stessi, rinunciare all’impegno.
Del resto, il movimento new global sta maturando una consapevolezza di dover esercitare anche una responsabilità politica che io considero importante. A Firenze il Social Forum si è interrogato sulla necessità di coniugare la critica alla proposta, ha cercato il dialogo con le forze politiche, ha dimostrato una nuova maturità. Credo che non si debba perdere questa opportunità, e si debba rafforzare e consolidare il dialogo tra società civile e politica, salvaguardando la reciproca autonomia”.

Un anno e mezzo di governo Berlusconi e l’attacco alle politiche sociali fondate su diritti e garanzie è evidente e dichiarato. Quali sono dal suo osservatorio le linee portanti di questa azione?

Fin dal suo esordio, il Governo Berlusconi si è schierato in difesa degli interessi di una piccola e potente minoranza. Non si limita a ridurre le garanzie sociali, vuole cambiare i connotati della nostra democrazia e riscrivere nei fatti le regole del gioco. È la strategia complessiva che inquieta e che non dobbiamo perdere di vista, al di là dei singoli esempi, pur gravi e allarmanti. Vedo due assi fondamentali e tra loro collegati: le politiche sociali e le riforme istituzionali.

UN CASO EMBLEMATICO
L’opposizione l’ha definito il taglio della vergogna. La Finanziaria 2003 sancisce infatti la liquidazione del Reddito minimo d’inserimento (Rmi), introdotto in via sperimentale dai Governi di centrosinistra nel 1998 in 39 comuni e poi, con la Finanziaria 2001, esteso progressivamente ad altri 396. Duecentomila le persone coinvolte.
Si era trattato di un’innovazione che, andando al di là dell’erogazione di un sussidio, si poneva l’obiettivo di superare uno dei tradizionali limiti del Welfare ita-liano: quello dello squilibrio tra l’erogazione dei trasferimenti monetari e l’offerta di servizi alle persone.
L’intervento assistenziale si univa al dovere di un impegno lavorativo o formativo vero, tentando di superare i vari esempi di pseudo-lavori socialmente utili.
È, invece, è arrivato il colpo di spugna. Con la Finanziaria il Governo ha deciso che “appare preferibile realizzare il co-finanziamento, con una quota delle risorse del Fondo per le politiche sociali, di programmi regionali”.
In pratica, scomparendo il finanziamento centrale (la quota di co-finanziamento a carico del Fondo per le politiche sociali sarà inevitabilmente bassa), che comportava anche criteri di accesso validi per tutto il territorio nazionale, l’alternativa saranno eventuali programmi regionali, inevitabilmente diversi nelle varie parti d’Italia perché condizionati dalle situazioni finanziarie locali.

L’assalto all’indipendenza della magistratura e alla giustizia, l’occupazione dell’informazione pubblica, la devolution e il presidenzialismo sono altrettanti capitoli di un’offensiva che punta a scardinare i principi fondamentali della nostra convivenza civile a imporre un modello sostanzialmente autoritario. I riflessi di questo disegno sulle politiche sociali sono altrettanto evidenti. Nessuna delle promesse demagogiche e populiste è stata mantenuta: né quella di aumentare le pensioni minime né quella di ridurre le tasse, anche se la pioggia di condoni inseriti nella Finanziaria costituisce una sorta di risarcimento postumo a chi pensa che le tasse siano un furto dello Stato.
La riforma fiscale, che abbandona il principio della progressività delle imposte, favorendo i più ricchi, assume allora un valore paradigmatico: il governo si schiera dalla parte dei forti. Lo fa quando alimenta il conflitto sociale, con l’attacco all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, con il tentativo di dividere i sindacati, fino all’accordo separato con la Fiat. Ma lo fa anche quando disegna una scuola che, invece di promuovere le pari opportunità tra i ragazzi, costruisce percorsi differenziati in base alle possibilità di reddito; quando taglia i finanziamenti alla sanità e all’assistenza, quando abolisce il reddito minimo d’inserimento.
È insomma il combinato disposto di scelte istituzionali, politiche fiscali e politiche sociali a determinare una svolta radicale nelle fondamenta democratiche e solidaristiche della nostra Repubblica.

Dalla sanità ai bonus per le scuole private sino a un certo uso distorto del cosiddetto “no-profit”: lo smantellamento del Welfare sta passando anche attraverso interventi formalmente fatti in nome della “libertà di scelta”, ma che in realtà depotenziano il servizio pubblico. Cosa ne pensa? È una tendenza inarrestabile o la si può frenare? E a quali condizioni?

Non c’è dubbio, “la libertà di scelta” è usata come un grimaldello per mettere in discussione il nostro sistema di solidarietà pubblica. Si è fatto leva sull’esigenza di avere servizi migliori, più personalizzati, meno burocratici, più vicini alle diverse realtà locali. Questo bisogno di maggiore qualità è legittimo e non può essere trascurato, ma deve diventare l’obiettivo dei servizi pubblici altrimenti i cittadini, in particolare quelli che hanno maggiori risorse economiche, si sentono legittimati a organizzarsi in forme autonome, alternative. La sfida di un nuovo modello di Welfare State è appunto quella di coniugare efficienza ed equità, attraverso l’uso corretto e solidaristico delle risorse e attraverso la programmazione dell’offerta.
Voglio dire che la libertà di scelta va assunta come una “condizione di qualità” del servizio pubblico: i cittadini devono poter scegliere all’interno di opzioni diverse che però siano parte integrante, non alternativa, al sistema pubblico. Nella sanità la libertà di scelta è reale solo se il malato può decidere tra soluzioni che siano egualmente appropriate ed efficaci. Ma chi garantisce che sia così? Certo non il paziente. Chi è interessato a fare profitti e guadagnare, e magari incoraggia scelte più costose o addirittura inutili? O un sistema che si fa carico, nell’interesse generale, di regolare il mercato selezionando le strutture e i professionisti, pubblici e privati, che offrono servizi e prestazioni di qualità per tutti, non solo per i ricchi?
Anche il volontariato e il no-profit, che con un malinteso senso della sussidiarità hanno spesso enfatizzato il protagonismo della società civile, sono più valorizzati solo se la loro opera è inserita in un progetto più ampio di solidarietà pubblica. Non dobbiamo, insomma, arrenderci all’idea che i principi di solidarietà e universalità dei sistemi pubblici siano in alternativa con i principi di qualità ed efficienza. Né possiamo rinunciare all’idea che per garantire un sistema sanitario accessibile a tutti, dall’immigrato al professionista, si debba pagare il prezzo di lunghe file, tempi d’attesa lunari, servizi mediocri.

Da un lato, il progressivo taglio dei trasferimenti agli enti locali. Dall’altro, il rischio, soprattutto per le aree del Sud (già penalizzate storicamente da una minore presenza di Welfare), di avere meno fondi per le spese sociali in nome di un ambiguo federalismo. Prima ancora dell’eventuale devolution bossiana, non le sembra che anche il centro-sinistra abbia finito per inseguire e assecondare certe spinte egoistiche?

Assolutamente no. La riforma federalista varata dal centrosinistra ha un impianto solidale che salvaguarda i principi di uguaglianza e di unità nazionale. L’obiettivo era quello di “governare” le pulsioni egoistiche di una parte, non indifferente, dei cittadini del Nord che nella Lega hanno trovato il portavoce della propria insofferenza nei confronti una Pubblica amministrazione distratta e clientelare.
Una maggiore autonomia e articolazione dei poteri è un dato positivo che rafforza la democrazia e sul quale non penso si debba fare marcia indietro. Purtroppo, la nostra riforma è stata consegnata a un Governo che ora non ha alcuna intenzione di attuarla in modo corretto. Del resto, nella sanità, il nostro federalismo prevede l’autonomia organizzativa delle regioni ma con un Fondo perequativo tra le regioni e i livelli essenziali di assistenza, che garantiscono ai cittadini i servizi e le prestazioni necessari e di qualità, senza distinzioni né di carattere sociale o culturale, né di appartenenza geografica.
Una bella differenza con la devolution sanitaria di Bossi e Tremonti, che fa piazza pulita dei livelli essenziali di assistenza, del Fondo perequativo, del principio di uguaglianza nel diritto alla salute, e ha già diviso gli Italiani in cittadini di serie A e cittadini di serie B.

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