Finché c’è debito...
Ricordate l’anno dell’euforia generalizzata per il cambio di millennio, per il grande giubileo… per cui sembrava che persino i lupi della finanza e della politica internazionale volessero diventare agnelli, assumendosi gli impegni del millennio e tra questi la soluzione del cosiddetto “debito estero” dei Paesi del Sud del mondo? Ebbene, passata la festa gabbato lo santo… o quasi, ma non per tutti, certamente non per noi! Pax Christi Italia è, da anni, tra gli aderenti di Sbilanciamoci (www.sbilanciamoci.org), una Campagna sorta per analizzare gli orientamenti di politica economica che emergono dalla legge finanziaria e dal bilancio dello Stato ed elaborare proposte alternative, puntuali e sostenibili, per una spesa pubblica che favorisca i diritti, la pace, la solidarietà. Tra le iniziative della Campagna, il Forum che annualmente viene organizzato in concomitanza con il vertice economico di Cernobbio è ormai diventato un appuntamento qualificante e irrinunciabile: quest’anno il nostro “controvertice” si è tenuto a Corviale (Roma), e in questo contesto Pax Christi ha invitato Riccardo Moro, economista e direttore della Fondazione Giustizia e Solidarietà, per fare un po’ di storia e il punto della situazione sul suddetto “debito”. Riccardo Moro è anche tra i principali protagonisti della “Campagna Ecclesiale per la riduzione del debito estero dei Paesi più poveri”, lanciata dalla Chiesa italiana in risposta al forte appello di Giovanni Paolo II nella Tertio Millennio Adveniente, alla cui base vi è il convincimento che la questione del debito non è solo una questione di solidarietà, ma innanzitutto di giustizia.
Le origini del debito
Il 1973 fu l’anno della crisi petrolifera e dell’austerità, perché i Paesi produttori di petrolio (OPEC) quadruplicarono repentinamente il prezzo del petrolio. Le banche si ritrovarono con enormi quantità di liquido e di conseguenza crollarono i tassi d’interesse (fino al 5% circa), nel momento in cui cresceva vertiginosamente l’inflazione. Divenne quindi necessario – oltre che utile e conveniente – chiedere prestiti per sostenere l’economia. Fu così per alcuni anni. Ma all’inizio del 1979 l’OPEC quintuplicò nuovamente il prezzo del greggio (che arrivò quindi a costare 20 volte in più rispetto al 1973).
A questo punto, per restringere la quantità di moneta e contenere l’inflazione, USA e Regno Unito aumentarono unilateralmente il tasso di interesse – che era variabile – fino al 30%, generando una dinamica surreale, perché l’interesse da pagare in tre anni era ormai equivalente al prestito iniziale. Quando poi, nel gennaio del 1980 la Federal Reserve (la Banca di Stato degli USA) apprezzò il dollaro a un valore di cambio che era il doppio di quello delle maggiori monete europee, gli interessi di un solo anno arrivarono a superare l’intero prestito, rendendo così l’estinzione del debito un’impresa proibitiva per chiunque e aumentando in maniera esponenziale col passare degli anni.
Per fare un esempio: un prestito di 600.000 lire contratto nell’autunno del 1978 a un tasso di interesse del 5%, a gennaio del 1980 produceva ormai un interesse di 660.000 lire: solo per interessi bisognava già pagare una cifra superiore all’intero capitale ricevuto 15 mesi prima. Da allora il problema non sarebbe più stato quello di pagare il prestito iniziale, ma gli esorbitanti interessi che si sarebbero accumulati ogni anno. Così già nel 1982 scoppiò la crisi del debito, quando il Messico dichiarò l’impossibilità di pagare il servizio del debito e, a ruota, altri debitori, in un imprevisto effetto domino, diffuso soprattutto in America Latina, si dichiararono insolventi.
Per reagire a questa situazione, che metteva in grave pericolo la situazione internazionale, nacque l’aggiustamento strutturale. I governi del Nord del mondo sollecitarono la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale a intervenire. Vennero perciò definiti accordi di riscadenzamento del debito, nei quali erano compresi nuovi tempi di restituzione, nuovi prestiti per superare la fase di crisi e provvedimenti di politica economica di ispirazione liberista, che il governo debitore si impegnava a mettere in atto. Con l’aggiustamento strutturale la comunità finanziaria internazionale impose ai Paesi debitori alcune riforme economiche, quali la liberalizzazione completa del mercato interno e l’eliminazione di tutte le eventuali forme di protezione; la liberalizzazione del tasso di cambio e la riduzione ai minimi termini della spesa pubblica, per definizione improduttiva.
Perché cancellare
A tutt’oggi il debito ammonta a 2.597 miliardi di dollari e il servizio del debito pagato nel 2004 ammonta a 373 miliardi di dollari. Una cifra, che sebbene non fantascientifica per le casse dei Paesi ricchi, costituisce una catena perpetua per quelli poveri, che si traduce concretamente nell’impossibilità per le nazioni più povere di combattere la fame e ogni genere di malattie che stanno falciando il pianeta. Da qui l’appello vigoroso di Giovanni Paolo II e il sussulto di molte coscienze civili. Ma sono solo ragioni di ordine solidale e morale a spingerci a chiedere la cancellazione del “debito”?
Nel corso del suo intervento, Moro ha offerto una serie di ragioni, che abbracciano diversi campi. Anzitutto una questione di giustizia prima che di solidarietà. “Se si ricalcolano le somme dovute e le somme restituite utilizzando come unità di misura non il dollaro, ma un paniere di monete che tenga conto delle variazioni di valore di tutte le monete, comprese quelle locali, si ottiene che per quasi tutti i Paesi il debito è stato già restituito completamente, e in qualche caso anche più volte, dunque nulla più è dovuto”. Poi una ragione storica.
“Nel periodo del colonialismo il Sud del mondo, e in particolare l’Africa, è stato defraudato delle proprie ricchezze naturali. Nessuno ha tenuto una contabilità di quanto è stato sottratto. In prospettiva storica le popolazioni del Nord sono debitrici verso quelle del Sud di valori letteralmente ‘non restituibili’”. Infine, una ragione di convenienza. “Liberare i Paesi dal peso del debito consentirebbe loro di destinare a investimenti produttivi le risorse oggi usate per la restituzione del capitale e il pagamento degli interessi”. A queste noi aggiungiamo una ragione politica.
Il cosiddetto debito nella maggior parte dei casi non è stato contratto da organismi democraticamente eletti nei Paesi del Sud e non è andato a beneficio delle rispettive popolazioni. È stato invece richiesto da regimi dittatoriali per l’acquisto di armi, impiegate nel reprimere la popolazione civile (e chi ha concesso i prestiti lo sapeva!).
Oggi il denaro destinato al pagamento del “servizio” del “debito” è sottratto alle spese sociali (alimentazione, sanità, scuola…), colpendo così ulteriormente – in termini di denutrizione, morte e analfabetismo… – proprio quelle popolazioni che avrebbero tutto il diritto di chiederci persino il risarcimento dei danni morali, ammesso e “concesso” che il diritto nella nostra concezione abbia ancora un valore universale!
Quali prospettive?
L’azione della comunità internazionale sul debito è passata da un approccio esclusivamente finanziario, che si preoccupa delle eccessive esposizioni, perché pericolose per la stabilità dei crediti e più in generale del sistema finanziario internazionale, a un approccio che dichiara centrale la lotta alla povertà. Ma le cancellazioni effettuate sono tuttora troppo lente, riguardano un ammontare troppo piccolo e toccano un gruppo di Paesi troppo poco numeroso. Inoltre il debito cancellato rappresenta solo una parte del totale, lasciando in essere un ammontare ancora troppo pesante. La cancellazione del debito non basta: il finanziamento allo sviluppo non transita solo per la cancellazione del debito, ma più ampiamente attraverso il cambiamento delle strutture delle relazioni finanziarie internazionali. È necessario inoltre creare strumenti che permettano di produrre risorse addizionali, una volta cancellato il debito, per lo sviluppo dei Paesi impoveriti. I Paesi ricchi destinano alle proprie spese militari (ma è solo uno dei tanti esempi possibili) cifre largamente superiori a quelle che sarebbero utili per avviare un processo nuovo nel Sud del mondo e in particolare nell’Africa.
Il G8 del 2005
Circa l’attendibilità delle ultime promesse dei G8, Moro ci ha spiegato che “i governi del gruppo propongono la cancellazione del debito multilaterale per i Paesi che abbiano completato il percorso HIPC (Heavily Indebted Poor Countries) e annunciano il proprio impegno ad aumentare le risorse per l’aiuto pubblico allo sviluppo. La decisione rompe finalmente il tabù dell’incancellabilità dei debiti verso gli organismi multilaterali (Banca Mondiale, FMI…). Ma a guardare i numeri, molti sono i limiti della decisione. Troppi sono i Paesi che vengono lasciati fuori. I Paesi che hanno completato il percorso HIPC sono infatti 18, su 38 qualificabili alla iniziativa e sulla settantina di Paesi a basso reddito che vivono con un debito comunque troppo oneroso. Inoltre le risorse liberate sono poche, il denaro che non si pagherà più (il servizio del debito) è molto scarso.
Se la cancellazione venisse effettuata per tutti i 38 Paesi HIPC questa cifra sarebbe inferiore a due milioni l’anno. Il rapporto Sachs delle Nazioni Unite sull’avvicinamento ai Millennium Development Goals calcola che, per raggiungerli entro il 2015, occorrerebbero almeno 50 miliardi di dollari in più ogni anno rispetto a quanto oggi viene erogato per lo sviluppo. A fronte della necessità di 50 miliardi la cancellazione proposta dal G8 ne libera meno di due. Come è evidente, dai Paesi più ricchi del pianeta ci si aspetta molto di più…”. Ma – ci chiediamo noi – fino a quando il santo dei poveri sarà disposto ad aspettare?!