La follia della guerra preventiva
Consentitemi di partire da un elemento che può apparire strano. Dalle campane. Perché io sono nato in un piccolo paese contadino, un borgo arrampicato tra i monti, molto silente, almeno prima che arrivassero le automobili e tutto il resto. Mi ricordo che quando ero fanciullo il suono delle campane delle chiese del mio paese segnava questo silenzio della campagna. Al mattutino, quando ancora c’era l’ombra, erano tocchi lenti, ben scanditi, un po’ malinconici, come ad accompagnare i contadini che allora si mettevano in via per il lavoro pesante.
Poi a mezzogiorno il suono era molto più festoso e nel pomeriggio c’era prima, verso le tre, un tocco di cui non ho mai capito bene il significato rituale, e poi la campana al calare della sera. Alcune volte, però, le campane intervenivano fuori da questa scansione molto armoniosa. Ricordo anche le campane a stormo, quel martellare molto angoscioso che mi spaventava un po’. Ecco, io ritengo che noi non abbiamo suonato abbastanza le campane a stormo per ciò che oggi ci troviamo di fronte.
Cambia l’idea di guerra
Il secolo in cui io sono cresciuto e vissuto è stato davvero terribile, con due spaventose guerre mondiali. Però penso che noi non
abbiamo ancora ben compreso la terribile novità che dobbiamo ora affrontare, cioè l’insorgere della guerra preventiva. Una novità preceduta da un altro passaggio, quello della normalizzazione della guerra.
Io fui contro la guerra del Golfo e ricordo ebbi il consenso, che davvero mi toccò molto, di don Dossetti su Il Regno. È lì, in quel frangente, che è avvenuto lo strappo. E, infatti, poi tutti gli anni Novanta hanno visto un’escalation che ha prodotto una normalizzazione della guerra. La guerra ha perduto il carattere di straordinarietà. Sono scomparse parole quali "disarmo".
È stata liquidata la prospettiva di lavorare per eliminare armi e situazioni di guerra, quella prospettiva che davvero rendeva tangibile un cammino di pace. E, infine, è arrivata l’idea che bisogna anticipare un ipotetico nemico con la guerra preventiva. Non siamo più, quindi, di fronte alla guerra, anche quella di Hitler, in cui il potente che la dichiarava sosteneva sempre di essere stato offeso, trascinato alla guerra, cercava un alibi insomma.
Adesso ci troviamo di fronte a un potere ed è la più grande potenza del mondo, quella americana – che afferma: in nome del terrorismo bisogna prevenire, agire prima, con la guerra. E io temo che i codici fondamentali dell’umanità rischino di essere cancellati da questa svolta che arriva in un momento in cui abbiamo a disposizione armi distruttive, inimmaginabili nel passato.
Lo dico, da vecchio, soprattutto ai giovani: un mondo così è davvero una cosa mai avuta prima. È un mondo dominato dall’arte collettiva dell’uccidere. E che arriva al termine di un’operazione durata dieci anni, tesa a lasciare tranquillo l’uomo comune, a rendere normale appunto il ricorso alla guerra.
Un secolo tragico
La seconda guerra mondiale – ancora più della prima – è stato l’evento in cui ci siamo accorti che non c’erano più i fronti e le lunghe battaglie, ma la guerra entrava in casa, nei luoghi dei civili e ammazzava tutti. Era davvero la guerra totale. Io ricordo ancora il bombardamento che ho vissuto a Milano, il bombardamento di metà agosto, deciso dagli angloamericani per spezzare le gambe a Badoglio e al re che esitavano ancora. È il tempo ricordato da Quasimodo: E come potevamo noi cantare…. Ora si va oltre quel tipo di conflitto, perché si è lavorato per dire che la guerra non è più quella che avevamo nella mente, nel ricordo vivo e tragico della nostra vita. No, è qualcosa di normale, anzi si arriva a pensare a una guerra preventiva. Con tutte le conseguenze che comporta. È l’idea stessa di guerra che cambia, si confondono idee e senso delle parole.
L’urgenza dell’ora
Una delle cose più spaventose è quello che è successo a Guantanamo, in nome della guerra al terrorismo. Io il carcere ho avuto la fortuna di non conoscerlo personalmente, ma tanti miei compagni finirono in carcere. È stata mia moglie a portarmi a Rebibbia, per conoscere questa realtà. A me sembrava già un cosa spaventosa il carcere normale, chiamiamolo così. Ma lì è diventato una cosa ancora più terribile. A me stupisce il fatto che nessuno se ne stupisca. Non ci sono più le mura, ma sbarre di ferro, lamiere, i detenuti sono seminudi, esposti alla cosa peggiore, che non è solo il freddo e il vento, ma è l’esposizione continua di sé, che colpisce quella cosa così profonda che noi chiamiamo intimità: quella per cui in un dato momento tu ti ritiri in un angolino, o ti rincantucci nel letto e ti ritrovi solo. È qui che nasce la preghiera.
E così hanno inventato Guantanamo. Io credo che Guantanamo racconti la guerra non solo come soppressione fisica ma anche come umiliazione, come soggezione totale. Racconta il punto a cui noi siamo arrivati. Ci avverte che il nuovo secolo rischia di essere un secolo tragico. Voi credenti ci arrivate a partire da una lunga tradizione e anche sorretti da una fede che io non ho. E forse anche l’abitudine di tanti di voi al contatto con il dolore, con la sofferenza, vi fanno più forti. Io temo il tempo che si prepara, perché sento che bisogna fare presto. Io, molto vecchio, anche un po’ stanco, sono venuto qui a Cremona rispondendo al vostro invito essenzialmente per questo: perché sento drammaticamente l’urgenza dell’ora. Bush corre, ha fretta di sbrigarsi. Si tratta di capire come si accelera anche la nostra risposta nei riguardi del potere politico, come riusciamo a incidere più rapidamente su chi deve decidere.
Dov’è l’articolo 11?
Certo, la vicenda della guerra in Iraq è una questione mondiale, ma noi intanto abbiamo un Paese nel quale viviamo, abbiamo questo Stato, questo parlamento sul quale intervenire. Ed è questione di poche settimane. Ho letto con molto piacere che anche D’Alema e Fassino cominciano ad avere un po’ paura.
Vorrei dire a D’Alema: Ti ricordi, Massimo (guarda, i vecchi fanno sempre la predica), ti ricordi i tempi della guerra del Golfo? Io avevo paura già allora. Mi chiedevo: dove si sta andando? Anche Giuliano Amato comincia a dire che l’Europa è contraria alla guerra. A me fa piacere.
Cominciano a esserci luci e ombre, posizioni che si diversificano rispetto al passato sull’assuefazione alla guerra. Ed ecco, allora, che la mia idea è di incidere sul potere politico a partire dai consigli comunali e provinciali. Da quelli a cui voi siete vicini, per cui ciascuno può agire subito e mettere in moto una catena di iniziative. Che i nostri consigli comunali, provinciali, regionali vadano a Roma, dinanzi o dentro Palazzo Madama o Montecitorio, per dire “No alla guerra e sì all’articolo 11” .
Perché questo è per noi l’interrogativo di fondo: esiste ancora l’articolo 11? Oppure qualcuno ha cancellato quel "ripudio della guerra" che lì è sancito? Guardate, non è questione di poco. Perché tutta la nostra vita, anche nelle piccole vicende quotidiane, è regolata da leggi che fanno riferimento alla Costituzione.
Ed è in gioco il rapporto del nostro Paese con la guerra, ma anche tante altre cose. Vogliamo sapere se la Costituzione esiste ancora. Stasera voi farete una marcia. Proseguite la con la stessa passione anche nei consigli comunali, e poi davanti a Montecitorio e magari anche in piazza del Quirinale. Lì sotto. Con la vostra voce, portando l’eco del desiderio di pace del nostro popolo. Come quelle campane che ricordavo prima: e cercando di farle sentire nel Palazzo.
Un ultimo pensiero. Voi guardate a una pace che scavalca la vita. Io vi faccio un augurio per questa pace più alta, ma voi sapete che noi non potremo essere in pace finché suoneranno le trombe della guerra preventiva. Sarà una finta pace. Se vogliamo la pace che ci preme, credetemi: dobbiamo metterci in viaggio.
Note
Dall’intervento tenuto il 31 dicembre 2002 al Convegno “Smilitarizzare Dio, smilitarizzare l’uomo” organizzato da Pax Christi a Cremona.*** Continuando la pubblicazione di articoli e contributi sul tema dell’articolo 11 della Costituzione, nel prossimo numero proporremo il testo dell’intervento di Oscar Luigi Scalfaro a un incontro tenutosi a Roma il 15 gennaio scorso.