Poliziotti di quartiere? Sì, ma solo se…
L’istituzione del poliziotto di quartiere, così come, in alcune città, del vigile di quartiere, ripropone all’attenzione la questione del complesso rapporto tra tre concetti chiave: sicurezza, difesa, conflitto. Tutti e tre questi concetti possono essere analizzati e definiti alla luce della cultura della trasformazione nonviolenta dei conflitti, oppure dal punto di vista tutt’oggi prevalente, quello dello Stato e del monopolio della violenza. Il tema della sicurezza viene usato da tempo in maniera strumentale dalle forze politiche (soprattutto quelle di destra, ma inseguite a vista da buona parte di quelle di sinistra) un po’ ovunque nel mondo con esiti distruttivi.
Errori da evitare
Non si vuole negare che possano esistere problemi autentici di sicurezza, soprattutto in alcune circostanze particolari. Ma i fautori di soluzioni del tipo “tolleranza zero” commettono alcuni errori fondamentali che portano a risultati diametralmente opposti: la sicurezza diminuisce anziché aumentare. Il primo errore consiste nella scelta puramente repressiva, punitiva, militare: più polizia, più agenti, più arresti, aumento della popolazione carceraria, libertà di uccidere e nei casi più esasperati propaganda per la pena di morte. Il secondo errore consiste nel disseminare un atteggiamento di paura assolutamente sproporzionato rispetto alla gravità della minaccia.
Se in un Paese come il nostro dovessimo lanciare campagne per la sicurezza, la prima e più grave minaccia da denunciare dovrebbe essere quella del pericolo degli incidenti stradali: una vera e propria strage che avviene non solo senza che vi sia una sufficiente percezione della gravità di questa minaccia, ma addirittura con l’invito ad acquistare più automobili, che possono viaggiare a velocità crescenti (ben superiori ai limiti massimi, già sufficientemente elevati e non rispettati).
Qual è la ragione di questo scarto nella percezione del pericolo e nella concezione della sicurezza? Qui entra in gioco il terzo e fondamentale errore: la sicurezza è definita solo rispetto a una specifica minaccia (aggressioni, furti, scippi) di una sola delle parti in gioco (l’aggredito) e non tenendo conto delle cause profonde che muovono gli aggressori a comportamenti violenti, dando per scontato che noi siamo i buoni e loro sono i cattivi (per natura, etnia, strato sociale) secondo la classica dicotomia: il bene dentro di noi, il male fuori di noi. Infine, il quarto e ultimo errore è quello dei “due pesi e due misure” : non vengono considerate minacce i reati dei “colletti bianchi”, che si fanno leggi ad hoc per impedire di essere condannati (a cominciare dall’attuale presidente del consiglio insieme alla sua coorte di avvocati e servitori) e si promuove un atteggiamento di “convivenza” con le forme ben più pericolose e radicate di organizzazioni malavitose di tipo mafioso (“con la mafia bisogna convivere”).
L’esempio degli USA
Per avere una conferma di quanto delle teorie sbagliate sulla sicurezza portino a risultati disastrosi, si vada a vedere lo straordinario film Bowling a Colombine del bravissimo regista statunitense Michael Moore. Colombine è il nome del liceo in cui nell’aprile 1999, mentre gli USA bombardavano allegramente la Serbia, due studenti giunsero a scuola con armi da guerra sparando nel refettorio e nella biblioteca e uccidendo dodici compagni/ e e ferendone un gran numero, con conseguenze gravissime di disabilità permanente. Gli USA sono il Paese più ossessionato per la sicurezza, con un elevatissimo numero di armi personali che si possono acquistare in ogni angolo di strada con estrema facilità e vantano, tra i Paesi democratici, il numero di gran lunga più elevato di vittime da armi da fuoco.
Una cifra impressionante, di alcune decine di migliaia di persone all’anno, paragonabile al costo di una guerra di intensità medioalta. I media contribuiscono a tutto ciò con una campagna di allarmismo che genera paure indotte e favorisce la potente lobby delle armi. Esiste un nesso tra questo concetto di sicurezza e di pseudodifesa sulla scala micro e meso delle relazioni sociali, e il concetto di sicurezza nazionale su scala macro. Gli USA sono il Paese con la più alta e incredibile spesa militare annua, oltre un miliardo di dollari al giorno, che ha contribuito a generare eventi come l’11 settembre: una condizione di vulnerabilità e di blowback (contraccolpo) dovuta ai grossolani errori della politica estera ed economica su scala mondiale.
Non c’è bisogno di aderire esplicitamente alla filosofia della nonviolenza per rendersi conto che “l’errore è vedere la sicurezza in termini militari. Sicurezza per chi, chi vuoi difendere, da quale minaccia. Immagino che la risposta sia che vuoi difendere la popolazione, le persone… il loro benessere, la qualità della vita, la sicurezza umana…. La sicurezza delle persone sta nel progresso economico e politico. Non hai società pacifiche e stabili se hai disoccupazione, competizione economica: avrai violenza e insicurezza”. Queste non sono le parole di un attivista di un qualche movimento di contestazione, ma esprimono il pensiero dell’ammiraglio indiano Ramdas in un’intervista (“Non c’è pace senza sicurezza sociale”, Il Manifesto, 4.1.03) che prende in considerazione anche le gravi violenze interne che hanno lacerato lo Stato del Gujarat in India.
Una città senza violenza
Occorre quindi spostare l’attenzione sul concetto di sicurezza sociale, di sicurezza comune, di bene comune. È questo che bisogna realizzare e difendere, riconoscendo peraltro la natura persistente e al tempo stesso mutevole dei conflitti. Le società e le comunità umane, su qualsiasi scala, sono perennemente attraversate da conflitti, il che non significa che siano necessariamente inclini alla violenza. Dobbiamo imparare l’arte della trasformazione nonviolenta dei conflitti su piccola come su grande scala, preparando figure specifiche di operatori di pace capaci man mano di disseminare queste conoscenze in modo che ciascuno, uomo e donna, bambini e bambine, ragazzi e ragazze, diventi operatore di pace.
Prevenzione prima della violenza, intervento durante la violenza e riconciliazione dopo la violenza sono le tre fasi principali del ciclo di vita del conflitto (si veda: Johan Galtung, La trasformazione nonviolenta dei conflitti, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2000) per ciascuna delle quali bisogna investire risorse e creare capacità e competenze specifiche. Nella logica attuale si privilegia la fase centrale, quella dell’intervento, con misure quasi esclusivamente repressive, mentre poco o nulla si fa per la prevenzione e la riconciliazione.
Eppure è ben noto, nella letteratura specializzata, quanto siano importanti queste due fasi e quali risultati positivi si possano ottenere. Ben vengano allora le figure, maschili e soprattutto femminili, di agenti, poliziotti, vigili, obiettori, volontari in servizio civile, purché addestrati a compiti ben più complessi, mirati e precisi di prevenzione della violenza, di accompagnamento, di “presenza amica” (il servizio svolto a Torino da obiettori, volontari e volontarie in servizio civile). A questi “operatori di pace” si dovrebbe prospettare un compito assai più ambizioso, ma al tempo stesso più realistico, di quello sinora proposto in modo vago e generico.
È l’obiettivo che in altre città europee (per esempio a Graz, in Austria) si sono posti da tempo: “Una città senza violenza”. Dove per violenza non si intende solo quella diretta, più appariscente ed evidente che i media e la cultura dominante contribuiscono ad amplificare, ma anche la violenza strutturale (socio-economica) e quella culturale (razzismo, etnocentrismo, sessismo, maschilismo, integralismo religioso). Una proposta di questo genere permetterebbe di affrontare i problemi della sicurezza di alcune delle fasce sociali più deboli o più esposte (anziani, donne, bambini, immigrati, senza casa) con un programma costruttivo nonviolento centrato su una più rigorosa concezione del conflitto. I tempi sono forse maturi perché almeno una parte delle forze di polizia facciano un passo avanti e si trasformino in forze nonviolente di pace per realizzare quella difesa sociale teorizzata da Theodor Ebert e in corso di attuazione nelle esperienze più avanzate e significative.