Fare tutto contro la guerra
“Venite qui, a casa mia. Consideratela casa vostra”. Sono le prime parole che ci sentiamo rivolgere (io e don Fabio Corazzina) da monsignor Shlemon Warduni, vescovo ausiliare del Patriarcato Caldeo di Bagdad. Lo abbiamo incontrato nei primi giorni di dicembre 2002, in Iraq. Siamo stati ospiti a casa sua per alcuni giorni. Lo abbiamo incontrato di nuovo in Italia, verso la metà di gennaio, a Milano, Sesto S. Giovanni e Brescia. È un uomo cordiale, schietto e senza troppi fronzoli nel parlare; sa molto bene l’italiano. È stato consacrato vescovo il 17 febbraio 2000. “Io non voglio fare distinzioni tra i cristiani e tutto il popolo iracheno. Quando mi chiedono ‘come vive la Chiesa in Iraq?’ io cerco di far capire che siamo tutti nella stessa condizione di grande sofferenza, a causa delle guerre passate, della guerra del Golfo e a causa dell’embargo che dura da circa 12 anni. E ora siamo tutti sotto la minaccia di una nuova guerra. Certo, poi ci sarebbe molto da dire sui cristiani in Iraq (siamo quasi 700.000, circa il 3% di tutta la popolazione). Ma dobbiamo dire che siamo rispettati e possiamo professare liberamente la nostra fede, cosa che in altri Stati a noi vicini, amici dell’Occidente, non è possibile. Cosa devo dire della nostra vita in Iraq? Molte cose voi già le conoscete, poi siete stati da poco in Iraq. Dopo dodici anni di embargo ci manca tutto, in particolare le medicine. Ma vorrei dire che l’embargo ha segnato profondamente anche la coscienza. Prima non era immaginabile che un iracheno sfruttasse l’altro. Oggi succede a volte anche questo; il salario mensile di soli 5/6 euro porta a imbrogliare e a non rispettare alcuni valori che invece nelle persone erano ben radicati. Così cresce anche la corruzione, ecc.”.
E giovani?
I nostri giovani hanno perso la speranza nel futuro. Da anni diciamo loro ‘il prossimo anno sarà meglio’, ma loro ci chiedono ‘fino a quando?’ E anche se
I cristiani iracheni elevano la loro supplica a Dio, chiedendo per il popolo iracheno e i suoi governanti una pace duratura e una vita gioiosa, chiedendo che si tolga l’ingiusto embargo che pesa sul Paese e che esso venga liberato dal male della guerra che viene minacciata, che semina il terrore nei cuori dei bambini, dei giovani e dei vecchi.
Noi chiediamo all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel suo segretario generale Kofi Annan, e al Consiglio di Sicurezza, come chiediamo a tutti i responsabili degli Stati, e in modo particolare al governo degli Stati Uniti e della Gran Bretagna, a tutte le associazioni internazionali e umanitarie che sono interessate alla pace mondiale, ai movimenti, ai pastori e ai fedeli delle religioni e a tutti i popoli, di trovare una soluzione giusta per allontanare dal popolo iracheno una sofferenza che non ha ragione, perché sia salvaguardata la pace nella terra della pace, e chiediamo all’Iraq di scoprire le vie della pace e del dialogo fraterno.
Noi ringraziamo tutte le persone di buona volontà che lavorano, in un modo o nell’altro, in tutti i Paesi del mondo, per allontanare lo spettro della guerra dal nostro caro Iraq. Noi preghiamo per loro perché Dio li conservi, chiediamo loro di moltiplicare gli sforzi e di fare tutto il possibile per salvare i nostri bambini, i giovani, gli anziani, i malati, da una guerra di distruzione e dalle sue gravi conseguenze, come la fame, le malattie, la strage di vittime innocenti.
Noi chiediamo a tutti di lavorare per la pace. Tutti noi abbiamo fiducia che Dio, il Signore della pace, doni la pace giusta per tutto il mondo e in modo particolare per il nostro caro Medio Oriente e il nostro caro Iraq.
Che cosa chiede a noi credenti, ai nostri vescovi, alle nostre comunità?
Non dimenticate il 24 gennaio 2002, quando il Papa ha incontrato tutti i capi religiosi ad Assisi per pregare per la pace. Anche noi in Iraq, lo scorso 29 novembre, abbiamo digiunato e pregato insieme e poi abbiamo fatto un appello (vedi box, ndr). Anche il 31 dicembre ci siamo trovati con un gruppo di religiosi degli Stati Uniti e abbiamo pregato insieme e loro hanno incoraggiato la nostra gente dicendo ‘siamo con voi’. Per questo vi chiediamo di unirvi a noi, perché possiamo sentire che abbiamo altri fratelli che soffrono con noi; non vogliamo che anche voi soffriate, no. Ma che sentiate la nostra situazione. Sentire e far sentire agli altri quello che si vive in Iraq. E poi credo sia importante unirsi al Papa e non lasciare isolata la sua voce. Far sentire una forza che non viene dalle armi o dalle bombe, ma dalla fiducia in Dio. I cristiani devono unire le loro voci e dire sì alla pace, no alla guerra. Scrivete ai vostri Vescovi, ai Parlamentari, ai Sindaci. Basta anche una piccola lettera con poche parole. L’importante è fare tutto il possibile per la pace e non per la guerra.
Padre, da noi chi è contro la guerra rischia di essere considerato un terrorista…
Martin L. King non era un terrorista, eppure è stato ucciso per la pace. Come ci sono terroristi per la guerra così dovrebbero esserci “terroristi” in un modo tutto diverso, senza l’uso della violenza, per la pace. Ci vuole l’impegno di tutti, come il pane è fatto con tanti grani di farina… Possiamo fare molto insieme. Possiamo fare molto, se lo vogliamo. Finisce qui la chiacchierata con mons. Warduni, al termine di una serata a Brescia, con la chiesa di San Giovanni Evangelista stracolma di gente. E mentre tutti vogliono salutarlo, abbracciarlo, esprimergli vicinanza e affetto prima del suo ritorno in Iraq, mi vengono in mente le parole di don Tonino Bello, al ritorno da Sarajevo, la sera del 13 dicembre 1992: “Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza. Le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono”.