Nutrirsi di attesa
Resiste alle fondazioni. E alle spiegazioni.
Eppure la dimensione del tempo rende l’amore eversivo.
Lo proietta nel futuro. Anzi nell’attesa.
Sandro Tarter, cosa è cambiato anche da un punto di vista del pensiero, della riflessione filosofica, dell’ermeneutica, su un tema tanto complesso e tanto fondamentale come è quello dell’amore? Possiamo ancora leggerlo secondo formule tradizionali, secondo lenti interpretative proprie della morale cattolica, oppure siamo costretti a ripensare i termini di riferimento dell’amore?
La domanda è di quelle che richiederebbe lo spazio di un intero saggio. Va innanzitutto rilevato che l’amore non è un tema particolarmente caro alla riflessione filosofica. Pochi sono gli autori che se ne sono occupati in maniera sistematica. La filosofia ha sempre dimostrato una certa cautela nell’affrontare la questione dell’amore e le ragioni sono molte. Intanto per una certa parentela con l’irrazionalità, che fa sempre temere cedimenti sul piano del rigore dell’argomentazione che per la filosofia resta qualcosa di irrinunciabile. L’amore porta con sé un’intrinseca ambiguità. Infatti l’analisi filosofica non l’ha mai trattato come un tema a se stante, ma si è attardata nella disanima della scissione tra “eros” e “agape” come si è delineata già anticamente nella cultura occidentale.
Da questo punto di vista è interessante che proprio nella filosofia contemporanea, o comunque nella filosofia sopravvissuta alla crisi dei grandi sistemi di pensiero – penso all’hegelismo come ultimo rappresentante di questa secolare tradizione –, vi siano riflessioni che lo chiamano in causa, lateralmente e indirettamente, nei temi del dono, della crisi del soggetto, dell’amicizia, della gratuità. Questo ci porta a individuare quello che forse è il motivo principe della diffidenza filosofica nei confronti dell’amore. La sua inevitabile “immotivazione”. L’amore pare non avere ragioni, e quando ne ha solitamente già è in procinto di tradire se stesso. Solo un pensiero capace di rinunciare alla prospettiva dei fondamenti e delle fondazioni è in grado di occuparsene.
L’amore svia e spiazza ogni intento cognitivo che cerchi di fondarlo “in altro”. Resiste alle spiegazioni, non perché votato all’irrazionalità, ma perché indica in modo cruciale l’infondatezza ultima e inevitabile delle spiegazioni. Anche per questo la teologia ha ragione a identificarlo col piano del divino. Dio è amore, e nel pensiero e nella teologia contemporanea – diversamente che nel pensiero medioevale – Dio non è tanto il fondamento ultimo, quanto piuttosto la crisi e l’insostenibilità stessa di qualsiasi fondamento posto dalla ragione. Dio è nell’impossibilità di dirlo. Nell’insufficienza di qualsiasi definizione. È l’ultima parola, quando le nostre parole sono venute meno, ed è una parola insondabile.
Le formule tradizionali certamente non bastano, ma se la morale cattolica sapesse osservare criticamente la propria storia troverebbe certamente argomenti utili a un ripensamento della questione. Perché è proprio il contesto evangelico – che fino a prova contraria continua a rappresentare il riferimento ineliminabile del pensiero cristiano – a segnalarci l’unicità e l’irriducibilità dell’amore, che non può essere confinato nell’ambito della morale.
La morale indica un insieme di norme che dovrebbero guidare il nostro comportamento, ma l’amore da questo punto di vista rappresenta la crisi della norma. Segnala l’irriducibilità dell’uomo alla norma. Del singolo uomo, della sua vita reale, che è sempre unica. È d’altra parte anche il grande problema della giustizia, che va sempre resa all’unico, all’altro, che è fuori dal genere, che non è prevedibile e nella cui vicenda senza analogie – come per ogni morte e nascita, direbbe Derrida – il mondo sempre ricomincia. Più che ripensare i termini di riferimento dell’amore, dovremmo forse lasciarci mettere in questione da esso. A pensarci bene, la parabola del Samaritano, dove si parla dell’amore verso il prossimo, rende impossibile qualsiasi categorizzazione.
“Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che era sulla strada?”. Il prossimo sei tu, nella misura in cui qualcuno ti costringe a deviare dalla strada prevista. L’amore è rivelazione, la risposta escatologica che sporge oltre il novero di tutte le ragioni possibili. Da questo punto di vista è un elemento di dis-ordine del mondo, per questo il potere lo teme. Il prossimo, la prossimità e l’amore sono inestricabili. Sono l’avvenire, ciò che continuamente si dà quand’anche non ci aspettassimo più niente. Non si può tesaurizzare l’amore come un risorsa, o erigerlo a principio; se conservato per il giorno dopo marcirebbe come la manna. L’amore è tale per la sua indisponibilità, cosa che lo distingue dalla virtù.
Si spreca e ricomincia: l’amore è affidamento all’amore, mancanza di strategia, deposizione delle armi, offerta di tempo. In ciò consiste la sua deferenza e il perdono. L’amore non è una regola della convivenza e del buon vivere che ci inclina alle cose amabili e ai fratelli naturali. Non è amore dell’amore, così come il bene non è contemplazione di se stesso. Una delle più grandi intuizioni di Lévinas: “La bontà del Bene inclina il movimento ch’essa sollecita per scartarlo dal Bene come desiderabile e orientarlo verso Altri – e solo così verso il Bene”. È una sovversione delle regole del sangue e dell’appartenenza.
In un saggio di successo, il sociologo polacco Zygmunt Bauman, descrive i processi di rottura dell’amore nel tempo della globalizzazione e tenta una definizione curiosa: amore liquido. Oramai nel nostro tempo l’amore non indica più un progetto condiviso per un ideale di sopravvivenza e di mantenimento della specie, come era un tempo, ma indica uno sprofondamento nella dimensione liquida della vita che non accetta più visioni onnicomprensive, orizzonti di lungo respiro, ma si colloca nella dimensione del presente del qui e ora, per cui le relazioni sono labili e contingenti e l’amore diventa una dimensione fra le altre, con riflessi virtuali come se l’innamorato accetti l’amore per come appare con la consapevolezza che è sempre pos sibile schiacciare il tasto “canc” per chiudere una storia.
I pericoli che Bauman segnala nel processo di globalizzazione sono mirati all’elemento potenzialmente spersonalizzante che la prospettiva di una società-organismo porta con sé. Non si tratta di una denuncia romantica. E non è nuova. Già W. Benjamin e T. W. Adorno avevano riflettuto acutamente sui temi della crisi dell’esperienza, dell’impossibilità di fare esperienza nelle società tecnologicamente avanzate. L’esperienza ha bisogno di tempo. L’amore ama il tempo, se ne nutre quasi. Lo forza, lo odia, ma proprio per questo lo ama. Ci si crogiola necessariamente. Roland Barthes, nel suo bellissimo Frammenti di un discorso amoroso, dice che la “fatale identità dell’innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta”. “L’attesa è un incantesimo: io ho avuto l’ordine di non muovermi”. Il qui e ora del presente liquido di cui parla Bauman non tollera la dimensione dell’attesa. Non si tratta tanto di mancanza di progettualità a lungo termine, quanto dell’impossibilità di sottrarsi al ricatto della velocità. Ha ragione Franco Cassano a definire (nel libro Modernizzare stanca) la globalizzazione come l’estensione del criterio della velocità a tutte le dimensioni della vita. Vi è nei processi della globalizzazione il sogno, l’incubo forse, della simultaneità. Che è l’azzeramento di qualsiasi attesa.
Come avviene per i nostri viaggi. Ciò di cui non ci si rende conto è che se
La sposa siriana è un film semplicemente bello. Geniale nella sua compostezza. È una telecamera doppia piazzata sulle brulle alture del Golan, terra israeliana al confine con la Siria. Dentro ci sono due occhi, uno del regista israeliano Eran Riklis e l’altro della sceneggiatrice palestinese Suha Arraf. Questi occhi vedono insieme la guerra disumana del sistema e l’umanità della vita che scorre. È il miglior modo di parlare di pace, è la lezione più saggia che si possa dare al conflitto. Non combatterlo, non ucciderlo, non negarlo. Lasciare che si riveli, che mostri le sue derive, che faccia rimbalzare dentro i propri bunker, l’assurdità delle sue leggi, delle sue regole, delle sue carte. Non invischiarsi, non impattarci, non brandire l’arma del contraddittorio. È la nonviolenza degli inermi che annulla l’arroganza e la prepotenza degli armati.
La sposa aspetta il suo sposo seduta su una sedia al di qua del confine. Ha le lacrime agli occhi perché la legge ordina ai transfughi israeliani verso la Siria, di non poter più tornare indietro. E lei si sposa con la star della televisione siriana in un matrimonio combinato dove non c’è mai stato un contatto, prima di quella attesa estenuante al confine arido, soffocato dal sole. Eppure lei c’è. Con tutta la sua famiglia, perfino con il fratello “straniero”, abbandonato dal padre che non sa più nemmeno abbracciarlo. Tutti al confine per accompagnarla nel viaggio verso un altrove che non ammette ritorno. La volontaria francese fa la spola fra i militari israeliani e siriani che non vogliono confermarle il visto. Il sistema tenta, ostinatamente, di bloccare l’unione, di rompere preventivamente il vincolo, di impedire l’amore fra i due popoli. Non c’è storia. Il matrimonio non s’ha da fare. Ed ecco il miracolo dell’uomo, la vittoria della leggerezza e del coraggio femminile. La sposa inaspettatamente si alza dalla sedia e comincia a camminare mentre il cancello si apre per far passare una macchina dell’esercito. Il velo bianco procede verso la frontiera siriana senza trovare ostacoli. Tutto si ferma, tutto si adagia, tutto si calma.
Alla fine esplode la bellezza del film: l’ultimo sguardo della sposa oramai prossima al cancello che non potrà mai più riaprirsi è rivolto alla sorella incapsulata in una storia familiare chiusa, asfittica possessiva. Il marito le ha impedito di studiare all’università perché una possibilità non conforme alla cultura del posto (che diranno i vicini dell’uomo lasciato solo a casa mentre la sua donna va lontano a studiare?).
Ma ora che la figlia è grande, ora che non ci sono più scuse per non lasciarla andare, prende su di sé il coraggio dalla sorella minore che sta superando tutte le frontiere e comincia anche lei a camminare oltre i confini interni alla sua stessa cultura, alla sua stessa tradizione, alla sua stessa vita. E sorride. E cammina.
È il doppio tragitto verso la libertà, verso la pace. Due donne, una sposa che cerca la confluenza con l’altro e una moglie che cerca la confluenza con le proprie aspirazioni e con il proprio futuro.
Un bel film. Una speranza di armonia nella terra del Dio frantumato e lacerato dove la tradizione fa a pugni con la modernità. Dove la responsabilità per l’altro non esclude affatto la responsabilità verso il proprio sé. È la vita che passa sui confini arbitrari delle nazioni.
F. C .
Un’altra modalità relazionale è stata analizzata da Antony Giddens, il filosofo della terza via blairiana, che in un saggio sulla trasformazione dell’intimità ha sciolto il problema dell’amore dal vincolo della promessa religiosa per portarlo su un terreno laico, di regolamentazione dell’unione attraverso un patto che consenta alla coppia di potere godere dei propri diritti, una sorta di amore nel diritto, che oggi torna a noi nel dibattito sulle coppie di fatto. Che cosa pensa al proposito?
Non conosco Giddens, ma mi pare che la prospettiva della sua affermazione c’entri poco con l’amore per come ne ho parlato in questa sede. Le coppie si amano o non si amano a prescindere che siano vincolate religiosamente o siano “di fatto”, come si dice con un termine abbastanza barbaro nella sua freddezza. Vi può essere una totale mancanza d’amore anche nelle relazioni tra persone che hanno giurato eterna fedeltà reciproca davanti a un altare. Non dimentichiamo che nella prospettiva cristiana non è il rito in sé a rendere sacro l’amore. Il rito semmai sottolinea e sancisce una sacralità che è propria dell’amore. La parola “sacro” è complessa e andrebbe chiarita, ma non è possibile farlo in poche righe. Mi limito a notare che a mio parere l’amore è sempre nella dimensione di una “promessa religiosa”, che si sia o no credenti, perché può anche terminare, ma non è mai a termine. Anche nella visione più disincantata, l’amore – se è tale – ha l’irragionevole caratteristica di essere un investimento senza ipoteca. Che si voglia o no, si agita in esso il sogno dell’eternità.
Ciò naturalmente nulla ha a che vedere con la questione dei diritti, che in una società democratica vanno precisati e garantiti nella cornice di un assoluto rispetto delle diverse convinzioni etiche e religiose.
Fin dove è possibile oggi pensare a un’etica dell’amore e se di un’etica si può parlare con quali parole e con quali concetti potrebbe essere veicolata?
Nutro qualche dubbio sul fatto che si possa parlare di un’ etica dell’amore, almeno nel modo in cui comunemente è intesa la parola etica. L’amore è un principio critico nei confronti di qualsiasi regola che pretenda di decidere dell’umano inquadrandolo una volta per tutte. Forse un’etica dell’“ospitalità” potrebbe avvicinarsi a quello che qui mi pare si voglia intendere. Alla sua base vi è quella visione dell’etica che ci ha insegnato a pensare un filosofo come Emmanuel Lévinas. Per Lévinas l’etica non è una cornice di regole, ma il fatto fondamentale – e originario nel suo pensiero – che l’altro viene prima di me. Tutto il nostro sapere e tutto ciò che siamo è risvegliato e nutrito da ciò che non viene da noi. La relazione con l’altro non è sistemabile in un sapere, nemmeno in un sapere etico. È una relazione, dice Lévinas, in cui i termini della relazione non si riducono mai a una misura comune.
Siamo per l’altro prima di ogni decisione e di ogni buona volontà. Siamo per l’altro anche quando rifiutiamo di esserlo. Rifiuto che è naturalmente sempre possibile. Si tratta di un pensiero difficile, che va salvaguardato dalla retorica. La retorica è il vero pericolo in agguato in ogni discorso sull’amore. Se si ha a cuore l’amore bisogna cominciare a nominarlo con parsimonia, come tutte le parole preziose. Ogni utilizzo fuori luogo di questa parola la avvilisce e la fa morire. Potremmo dire che l’etica dell’ospitalità si differenzia dalle etiche per la considerazione essenziale della propria insufficienza. Non aspettiamo mai abbastanza colui che deve venire. Come se paradossalmente l’ospitalità fosse un dono che riceviamo da chi arriva, prima ancora che offrirlo a lui. È l’ arrivante a cui pensava anche Derrida, per il quale qualsiasi orizzonte di attesa potrebbe non bastare. Un ricevere in uno spazio che non sarà mai abbastanza grande per ciò che viene. Abramo non si accontenta di aspettare i suoi ospiti eventuali al riparo della propria tenda. Esce nel deserto a cercarli perché possano fargli il dono di una visita. Ecco: forse l’amore si potrebbe definire come visitazione. Di questo la nostra civiltà ha un grande bisogno.