Compagni di strada
L’anelito di rinnovamento aperto dal Concilio. Ancora difficile da digerire.
Il Concilio Vaticano II è stato un evento periodizzante nella storia della Chiesa del XX secolo. Giovanni XXIII annunciò la sua intenzione di convocarlo il 25 gennaio 1959, in modo del tutto inaspettato, pochi mesi dopo essere divenuto pontefice. Sarebbe stato uno dei punti di maggiore impegno del suo pontificato e certamente rappresentava all’inizio una sfida di cui era difficile cogliere i possibili sviluppi.
Gli ultimi anni del pontificato di Pio XII erano stati caratterizzati da un diffuso malessere di fronte al diffondersi e approfondirsi dei processi di secolarizzazione, che sembravano ridurre progressivamente la presenza della Chiesa nella vita della società. In molti Paesi occidentali i vescovi denunciavano una sostanziale decristianizzazione della società, rispetto alla quale le strategie di difesa e di riconquista messe in atto sembravano avere ben scarso successo. Dopo l’esperienza dei totalitarismi e della seconda guerra mondiale il mondo restava profondamente diviso. Il confronto tra USA e URSS dava luogo a una tensione internazionale sempre sul punto di precipitare. In preparazione di un possibile scontro diretto le due superpotenze avevano avviato
La capacità di un rinnovamento di sinodalità sta proprio nella possibilità di pensare insieme.
Per arrivare a delle decisioni comuni e condivise.
Per studiare prassi che siano efficaci e soprattutto incisive per annunciare realmente Gesù Cristo e il Vangelo.
Mons. Tommaso Valentinetti, presidente Pax Christi Italia
Auspicio di rinnovamento
Il conflitto internazionale rifletteva e alimentava profonde divisioni ideologiche presenti anche all’interno dei singoli Paesi. La Chiesa cattolica considerava la forte presenza dei partiti comunisti e socialisti come una minaccia diretta nei suoi confronti. Era il pensiero moderno, con le sue categorie di libertà individuale e di autonomia della ragione, che aveva portato la società in balìa del peggiore nemico contro cui la Chiesa si trovava a combattere. Il magistero di Pio XII sembrava ossessionato dal pericolo dell’avanzata comunista. Assalita da ogni parte, essa si trovava a dover difendere la propria fede e il prezioso bagaglio di una verità custodita gelosamente. La fede dei credenti, preservata nel segreto delle loro coscienze, alimentata spesso da una fervida devozione, aveva la sua ragione in questa verità. Tuttavia proprio il confronto con il mondo e l’ansia dell’impegno pastorale lasciava il dubbio che tale esperienza di fede, al di là delle sue ricchezze spirituali, fosse troppo condizionata dallo scontro con gli altri e soffrisse di una chiusura dentro una concezione troppo monolitica e autoritaria di Chiesa. Molti movimenti di apostolato auspicavano un rinnovamento dei metodi pastorali e un diverso rapporto con il mondo.
A queste possibilità sembrava aprire sin dal suo esordio il pontificato di Giovanni XXIII. La sua stessa bonomia smentiva una condanna troppo assoluta della modernità. La sua idea del Concilio partiva dalla convinzione che il tesoro di verità che la Chiesa possedeva non dovesse semplicemente essere custodito integro, ma dovesse essere trafficato in un mondo che ne aveva urgente bisogno. Questo non avrebbe messo a rischio la sua purezza, ma avrebbe corrisposto alla sua più propria destinazione e lo avrebbe arricchito di nuovi significati. Secondo Giovanni XXIII il Concilio non doveva essere solo la riunione di tutti i vescovi della Chiesa per risolvere i suoi problemi interni, ma doveva anche rispondere ai bisogni della società moderna. La prima idea del Concilio derivava, a suo dire, dalle considerazioni fatte con il suo segretario di Stato mons. Tardini riguardo alla situazione internazionale e alle “gravi angustie e agitazioni” in cui si trovava il mondo: “Rilevammo, tra l’altro – ricordava Giovanni XXIII in un’udienza del maggio 1962 – come si proclami di volere la pace e l’accordo, ma, purtroppo, talora si finisca con l’acuire dissidi e accrescere le minacce. Che cosa farà la Chiesa? Deve la mistica navicella di Cristo rimanere in balia dei flutti e essere sospinta alla deriva, o non è piuttosto da essa che si attende non solo un nuovo monito ma anche la luce di un grande esempio?”. Pochi giorni dopo, in un’altra udienza, accennando ai problemi della pace continuamente minacciata e alla necessità di una profonda unione tra gli uomini, il Papa osservava: “Proprio dal rilievo di questo stato di cose e dalla divina missione della Chiesa è scaturita come si sa la prima idea del Concilio. Il nuovo Papa, nel vedere appunto il mondo in disordine, in fremiti di odio e di passione, nel notare che mentre il sinistro rumore di lotta tace per un momento in un punto del globo,
Finalmente è convocato il Concilio, per offrire al mondo, che è smarrito, diviso, tormentato dalla paura di nuovi terribili conflitti, una possibilità per tutti gli uomini di buona volontà; per indirizzare riflessioni e proposte per la pace.
(dalla Costituzione Apostolica di Giovanni XXIII Humanae salutis, per la convocazione del Concilio)
Nuovi linguaggi
Era un’aria davvero nuova quella che si respirava. La Chiesa non pareva più impegnata in un’opera di difesa o di riaffermazione della verità, ma si offriva di portare il proprio contributo a risolvere le ansie del mondo moderno, semplicemente dando nuovo impulso alla sua vita spirituale, riscoprendo le ricchezze nascoste nella sua tradizione. Non occorreva salvaguardare la verità con nuove condanne di errori moderni, ma bisognava invece attingere alla ricchezza spirituale più profonda della Chiesa per offrirla al mondo nelle forme e nel linguaggio che esso poteva comprendere.
Il realtà questo percorso corrispondeva alla sensibilità che molti fedeli e molti pastori avevano maturato negli anni precedenti e che in Concilio trovò la possibilità di esprimersi e di affermarsi per bocca di molti vescovi. La riforma liturgica fu probabilmente l’aspetto più emblematico di questo rinnovamento. Il Concilio non represse certo la devozione e la pietà individuale, ma volle recuperare alcuni significati liturgici ben ancorati nella tradizione che facevano della messa il punto centrale della vita di fede e mettevano al primo posto l’esperienza comunitaria. Seguendo l’impulso del dialogo ecumenico, il Concilio affermò la centralità della Parola di Dio, alla quale attingeva la stessa tradizione. Fece in modo che la Bibbia venisse letta da tutti e divenisse il centro della preghiera della Chiesa. La stessa concezione della Chiesa venne approfondita alla luce della Parola di Dio e di una tradizione antica, riscoprendo il suo significato comunitario, prima che giuridico, il suo valore di popolo di Dio in cammino nella storia di tutti gli uomini.
Certo in Concilio si confrontarono scuole e teologie diverse, espressione dei diversi modi in cui i fedeli vivevano la loro fede. Ma questo confronto permise un effettivo approfondimento dei problemi che si espresse poi in un arricchimento spirituale per tutta la Chiesa. Nessuno uscì dal Concilio con la medesima consapevolezza di fede con la quale era entrato. Questo era in fondo il contributo che Giovanni XXIII pensava si dovesse dare al mondo moderno, in quella prospettiva del Concilio come evento di pace che sin dall’inizio aveva guidato la sua proposta.
La Pace al centro
Paradossalmente il tema della pace fu però uno dei più tormentati. Anche a questo riguardo i padri conciliari avevano alle spalle una dottrina di lunga tradizione, quella della guerra giusta, e un magistero pontificio molto forte, quello di Pio XII. Ma c’era anche una situazione nuova rappresentata dall’ansia generata dal crescere degli armamenti nucleari e dalle difficili tensioni politiche nel mondo diviso. Nell’ottobre 1962, quando il Concilio era appena cominciato, scoppiò la crisi di Cuba, una delle più drammatiche di tutta la guerra fredda, che lasciò anche i padri conciliari nello sgomento. Giovanni XXIII cercò di intervenire a livello diplomatico per ristabilire un dialogo tra le parti prima che giungessero a una mossa irreversibile. Prendendo spunto da questo episodio cominciò a pensare a una lettera enciclica in cui la pace venisse indicata come il criterio ultimo per l’ordine della società. L’enciclica Pacem in terris, pubblicata nell’aprile 1963, in cui Giovanni XXIII giungeva a condannare il ricorso alla guerra come mezzo per ristabilire la giustizia, sarebbe stata una sorta di testamento spirituale in cui si sintetizzava tutto il suo pontificato.
Era una posizione più avanzata rispetto agli schemi preparati per il Concilio, ancora legati al magistero di Pio XII che condannava la guerra di aggressione e l’uso delle armi moderne, ma affermava poi in termini tradizionali il principio di legittima difesa. Nelle discussioni conciliari si confrontarono diverse posizioni. La maggioranza dei vescovi era favorevole a una condanna della guerra moderna, a causa delle potenzialità distruttive che comportava, e della corsa agli armamenti, per i rischi che implicava e per l’enorme dispendio di risorse economiche che richiedeva. Ma altri vescovi erano contrari a queste condanne per i rischi politici che avrebbero comportato. In particolare a quella del principio di deterrenza poteva essere un ostacolo alle potenze occidentali nella necessaria difesa contro le minacce dei Paesi comunisti. Inoltre sarebbe stata interpretata come una condanna indiretta della politica statunitense e avrebbe
Giannino Piana (in AA.VV.; Paura del Concilio, ed. la meridiana, Molfetta 2003)
C’erano poi anche altri vescovi, ma erano una minoranza, secondo i quali il Concilio doveva giungere a una condanna radicale della guerra, più esplicita di quella della stessa enciclica giovannea, e questo non a motivo del potenziale distruttivo delle moderne armi atomiche, ma semplicemente perché ogni guerra, per qualunque motivo intrapresa, era in se stessa contraria al Vangelo. Era questa anche la posizione espressa dal card. Lercaro, in un importante intervento presentato per iscritto, nel quale egli arrivava a sostenere la necessità di rispondere alla guerra con una resistenza nonviolenta. Lercaro avrebbe riproposto questa posizione di condanna qualche anno dopo, riferendosi esplicitamente ai bombardamenti statunitensi in Vietnam. Fu un atto di accusa coraggioso, che venne a turbare le iniziative diplomatiche di Paolo VI e per il quale dovette pagare duramente rinunciando al suo ministero episcopale.
Alla fine il Concilio giunse a formulare una posizione di compromesso: da un lato venne formulata una condanna solenne di tutte le azioni di guerra totale e della corsa agli armamenti, ma dall’altro lato lasciava sostanzialmente sospeso il giudizio morale sul principio di deterrenza. Nella valutazione di Giuseppe Dossetti l’incertezza di questa posizione era in realtà l’indizio di una più profonda debolezza del Concilio nel giudicare il mondo moderno.
Contraddizioni e ambiguità
Non si può nascondere che da molti altri punti di vista i documenti del Concilio presentino incertezze e ambiguità che hanno dato luogo poi, negli anni successivi, a una molteplicità di letture e interpretazioni spesso fortemente contrapposte. In particolare sul tema della pace e della guerra a partire dal testo conciliare si può sostenere sia la tesi di una sostanziale continuità con la dottrina precedente sia quella che il Concilio abbia accolto e approfondito la posizione di Giovanni XXIII respingendo la dottrina della guerra giusta. Non si può negare tuttavia che proprio le discussioni apertesi in Concilio su questo tema abbiano portato a un considerevole approfondimento teologico sul quale si è poi costruita la riflessione degli anni successivi. In realtà proprio l’esperienza della discussione conciliare si inseriva in un contesto di apertura dialogica con il mondo che poneva la dimensione dottrinale non più in riferimento a una verità atemporale, ma alla verità compresa all’interno di un destino storico comune a tutti gli uomini. Questo destino doveva essere letto alla luce della salvezza operata da Cristo per tutti. Anche la pace non sfuggiva a questa dinamica.