L’eredità difficile
“Appartengo a quella generazione che ha vissuto la seconda Guerra Mondiale ed è sopravvissuta. Ho il dovere di dire a tutti i giovani, a quelli più giovani di me, che non hanno avuto questa esperienza: ‘Mai più la guerra’, come disse Paolo VI nella sua prima visita alle Nazioni Unite […]. Di fronte alle tremende conseguenze che un’operazione militare internazionale avrebbe per le popolazioni dell’Iraq e per l’equilibrio dell’intera regione del Medio Oriente, già tanto provata, nonché per gli estremismi che potrebbero derivarne, dico a tutti: c’è ancora tempo per negoziare, c’è ancora spazio per la pace, non è mai troppo tardi per comprendersi e per continuare a trattare” (16 marzo 2003).
Un’eredità difficile quella di Giovanni Paolo II. Il suo pontificato, notano alcuni studiosi, è di difficile lettura. Anzi, ha presentato elementi contraddittori rivelando le antinomie più ampie di tutta la Chiesa, anche se Giovanni Paolo II, a mio parere, si è collocato più avanti della statica sintesi di tensioni contrapposte. Ha patito la classica solitudine del profeta ed è
stato frenato dal peso di una tradizione pigra e distratta, poco attenta alla novità dei “segni dei tempi”. Per questo faceva spesso appello ai giovani, al loro coraggio responsabile (voi non vi rassegnerete), alla loro intuizione creatrice (sentinelle del mattino), alla loro capacità di speranza (la pace è possibile).
Oltre il trionfalismo
Attorno a lui oggi c’è troppa retorica clericale e un esagerato devozionismo, che tendono a nascondere la sostanza della sua opera. Temo un certo trionfalismo atto a mascherare il senso di colpa o la passività davanti alla sua voce inascoltata e a ridurre la profondità innovatrice del suo messaggio. La sua eredità si colloca nell’intreccio tra le 90 richieste di perdono per l’uso cattolico-cristiano della violenza nella difesa della verità (compresi i famosi “mai più” del Giubileo del 2000); i gesti solenni e amichevoli verso ebrei e musulmani; gli incontri delle religioni ad Assisi (nel 1986 e nel 2002) che hanno sancito il definitivo ritiro di ogni possibile avallo religioso alle guerre e l’impossibilità di qualunque forma di crociata armata; l’attenzione ai movimenti per i diritti umani e al popolo della pace, compreso quello della marcia Perugia-Assisi del 12 ottobre 2003; i 27 messaggi per le Giornate Mondiali della Pace del primo gennaio di ogni anno (soprattutto gli ultimi 9); encicliche come la Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991); la vibrante opposizione alle guerre del Golfo e all’invasione dell’Iraq; il rifiuto dell’unilateralismo egemonico e del “pensiero unico” dopo il crollo del Muro di Berlino; il perenne invito ad abbattere ogni muro e a costruire ponti; l’argomentare problematico accompagnato dal costante duplice grido: “Mai più la guerra-la pace è possibile”.
Alcuni hanno osservato un ritorno al passato, quasi un rilancio della teoria della “guerra giusta” in occasione delle vicende balcaniche. Può darsi che come Capo dello Stato del Vaticano il Papa abbia dovuto scontare il peso di argomentazioni diplomatiche generiche o ambivalenti. Può darsi che sia stato un errore il rapido riconoscimento (tra il 1991 e il 1992) della Croazia, della Slovenia e della Bosnia. Ma è indubbio che si è prodotta una cattura mediatica (a scopi militari) dell’espressione “ingerenza umanitaria”, identificata subito con l’orribile ossimoro della “guerra umanitaria”.
Testimone del Vangelo
Da parte mia, preferisco valorizzare il Papa come testimone del Vangelo e guida dei credenti. Su quegli anni lascio la parola a Tonino Bello, testimone autorevole di una tragedia che lo ha visto marciare, nonostante il male che lo stava divorando, fino a Sarajevo. In un’intervista del 1992, alle domande riguardanti il “dovere di ingerenza”, don Tonino osservava: “Il Papa non ha chiesto l’intervento armato. Ha chiesto l’intervento. Ha gridato, cioè, contro la vergognosa latitanza dell’Europa e del mondo che assistono al massacro nei Balcani [...]. Non si può rimanere spettatori neutrali, e neppure semplicemente tifosi [...]. Bisogna separare i contendenti. Ma non con la violenza delle armi. Il Papa non ha mai tirato fuori dal cassetto dei suoi appunti il fantasma della ‘guerra giusta’, che l’anno scorso egli stesso aveva autorevolmente contribuito a cancellare per sempre dalle pagine della teologia morale [...]. Nelle sue parole c’è da leggere l’indignazione di chi, nella guerra del Golfo, ha visto lo ‘zelo’ interessato dei potenti, ansiosi di bruciare sul tempo il pro-forma delle trafile negoziali, e scalpitanti di attuare al più presto l’opzione militare [...].
Nell’iniziativa del Papa c’è la protesta del profeta. Egli denuncia ancora una volta l’ipocrisia nascosta sotto certi fraseggi dello scorso anno (come quello del ristabilimento dell’ordine internazionale violato), tesi più alla tutela del petroldollari che alla difesa dei diritti umani”. Al giornalista don Tonino ricordava “le sue formulazioni coraggiose contro la guerra, che sono entrate nel prontuario di un inequivocabile magistero di pace, e appartengono ormai ai
Papa Giovanni Paolo II, 6 settembre 2004
Precisava, infine, che “occorre giocarsi tutto sulla strategia della nonviolenza e della difesa popolare nonviolenta” (A. Bello, La speranza a caro prezzo, San Paolo, 1999). Per anni il Papa ha invitato la Chiesa a convertirsi, a dotarsi di una visione nuova del mondo, al “compito immenso” di porre “innumerevoli gesti di pace” che “creano una tradizione e una cultura di pace” (1 gennaio 2003).
Secondo me, nel tormento del Papa davanti allo scenario aperto negli anni Novanta viveva un’istanza radicale, a un tempo messianica (eutopica) e apocalittica (rivelativa). Le sue espressioni sui temi della guerra sono state brucianti: “avventura senza ritorno”, “sconfitta dell’umanità”, “suicidio dell’umanità”, “silenzio di Dio”, “abisso del male”, “vera passione di Cristo”, “orizzonte rigato di sangue”, “la violenza disonora la santità di Dio e la dignità dell’uomo”, “la guerra è un crimine”, “tragedia umana e catastrofe religiosa”...
Nel messaggio del 1 gennaio 2002 (Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono), c’era anche una dimensione interreligiosa. Le religioni devono insegnare “la grandezza e la dignità della persona”, diffondere “una maggiore consapevolezza dell’unità del genere umano”, condannare ogni forma di “fanatismo fondamentalista radicalmente contrario alla fede”). Emergeva una visione nonviolenta della verità: “La verità, anche quando la si è raggiunta – e ciò avviene sempre in modo limitato e perfettibile - non può mai essere imposta […]. Pretendere di imporre ad altri con la violenza quella che si ritiene essere la verità, significa violare la dignità dell’essere umano e, in definitiva, fare oltraggio a Dio, di cui egli è immagine”.
In molte espressioni pontificie ho sentito vibrare il germe di una nuova teologia cristiana (e laica) della pace nella nonviolenza che porta a maturazione l’eredità della Pacem in terris di Giovanni XXIII, additata nel messaggio del 1 gennaio 2003 come “impegno permanente”. Essa deve basarsi su una visione radicale, alternativa e globale del panorama internazionale, orientata a produrre una nuova storia: “Il secolo XX ci lascia in eredità soprattutto un monito: le guerre sono spesso causa di altre guerre [...]. Con la guerra è l’umanità a perdere. Di fronte allo scenario di guerra del secolo XX, l’onore dell’umanità è stato salvato da coloro che hanno parlato e lavorato in nome della pace. È doveroso ricordare quanti, innumerevoli, hanno contribuito all’affermazione dei diritti umani e alla loro solenne proclamazione, alla sconfitta dei totalitarismi, alla fine del colonialismo, allo sviluppo della democrazia, alla creazione di grandi organismi internazionali. Esempi luminosi e profetici hanno offerto coloro che hanno improntato le loro scelte di vita al valore della non-violenza”. L’eredità nonviolenta di Giovanni Paolo II non è diventata magistero pubblico ecclesiale. Ma la maturazione di un’autentica teologia della pace nella nonviolenza può essere solo frutto dell’azione comune del popolo di Dio in cammino. Dei laici credenti nella pace. Sapremo alzarci in piedi e camminare?