Pietre vive
Ha camminato, parlato, sorriso e accolto. Così Geries Koury, teologo palestinese giunto in Italia alla fine di novembre, ha portato il suo contributo pacato e deciso alla comprensione del dramma infinito che sembra avvolgere la sua terra in una spirale di odio e di ingiustizia senza fine. “Per conoscere bisogna innanzitutto conoscersi, incontrarsi”: a tutti ha raccontato la necessità di superare la paura e le diffidenze causate dai pregiudizi e dalla non conoscenza dell’altro, della sua storia, dei suoi drammi, collettivi o personali che siano, in Italia come in Palestina e Israele. Lui, uomo dalle molteplici identità (Sono arabo e israeliano, palestinese e cristiano), ha rivelato alla gente di come queste possano trasformarsi in occasione di apertura sincera e costruttiva all’altro, anche quando l’altro ti ruba la terra, la libertà, l’acqua, le pietre…
Abbiamo raccolto le sue riflessioni, certi di aver incontrato un amico in più.
Il muro, i muri
In Terra Santa Israele sta costruendo un muro che sta provocando sofferenze smisurate alla gente palestinese. Le sue conseguenze sono gravi non solamente
Qualche anno fa sono stato invitato in una città del nord Italia a tenere un incontro in una chiesa. Insieme a me c’era un rabbino israeliano, che non conosceva l’italiano. Per questo gli hanno affiancato una persona, un medico, che conosceva l’ebraico e l’italiano. Ho cominciato a chiedermi: “Che sia un agente dei servizi segreti? Che voglia ascoltare i miei discorsi e poi quando torno a casa ne pagherò le conseguenze?”. Pensavo se fosse il caso di dire la verità, o di dire ciò che piace a Israele. Avevo paura davvero. Poi ho pensato : “Non posso essere altro che Geries Koury. Devo dire ciò che ritengo giusto”. Ho parlato del conflitto arabo-israeliano: il dottore annuiva e incalzava con domande che sostenevano la mia causa. Allora ho pensato: “Forse è una tattica per provocarmi ulteriormente”...
Sono tornato a casa con questi dubbi. Ma nessuno mi ha convocato. Dopo sei mesi ho nuovamente avuto occasione di parlare in quella città. Ero il solo oratore in sala, ma quel dottore, un israeliano che vive in Italia, era in prima fila. E mi ha invitato a casa sua. Ma io avevo ancora più paura. Dopo due o tre incontri ‘di paura’ sono andato a casa sua, ho parlato con sua moglie e i suoi figli. Siamo diventati carissimi amici. Sono stato male e lui dall’Italia è venuto a trovarmi in ospedale. Oggi, quando viene in Israele a trovare i suoi parenti, sta mezz’ora con la mamma e poi si trasferisce a casa mia. E io in Italia sto da lui…
In Israele e Palestina oggi questo muro impedirà qualsiasi incontro tra palestinesi e israeliani. Non è creato per la sicurezza di questi ultimi (se l’intenzione fosse stata questa, lo avrebbero eretto lungo la linea verde), ma sta rubando la metà del 22% della Palestina storica e in molti casi ha diviso in due i villaggi. La sicurezza degli israeliani non deriverà da questo muro, ma da una pace vera e duratura. Senza la pace questi muri non servono a niente. Ci hanno preso la terra: ma la cosa più importante è che ci impediscono di incontrarci e dialogare. Noi non vogliamo il terrorismo: vogliamo la pace e vogliamo che nasca lo Stato palestinese sul 22% della Palestina storica.
Cristiani perseguitati
A me non piace questa affermazione, perché non lo siamo affatto. Nei Territori occupati i cristiani sono l’1,6% della popolazione, ossia 52.000 persone. In Israele sono l’1,7%, cioè 117.000 persone. Siamo una minoranza dunque. E nel mondo per tutte le minoranze è difficile, è normale questo. I cristiani di Terra Santa vivono con una maggioranza islamica: nella vita di ogni giorno compaiono i problemi quotidiani, che non esistono solo tra musulmani e cristiani, ma anche tra musulmani e musulmani e tra cristiani e cristiani. Quest’anno in Galilea quattro cristiani sono stati fucilati da altri cristiani: se solo uno di loro fosse stato ucciso da un musulmano, tutto il mondo avrebbe parlato di persecuzione. Ma questi sono stati uccisi dai loro fratelli per un problema relativo a un piccolo pezzo di terra…
Nei Territori occupati ogni giorno c’è un problema: la gente è sempre tesa, per forza! Ma nella quotidianità musulmani e cristiani vivono insieme, in autobus, come al mercato. Viviamo lì insieme e non in armonia perfetta, perché c’è l’occupazione. E l’occupazione dal 1967 ha fatto di tutto per dividere musulmani e cristiani. Divide et impera: facendo credere ai cristiani di essere perseguitati dai musulmani li si induce ad andar via.
Questa politica è a favore del governo israeliano perché porta l’Occidente a dire che lì stanno rimanendo i fondamentalisti islamici. E nessuno interverrà più: né Papa, né vescovi, né fedeli. Dal 1982 opero con i musulmani e tra loro ci sono i miei migliori amici. Il Centro per cui lavoro è presieduto dal
arabo-cristiano di Fassouta
in Galilea.
Direttore del Centro “AL-LIQA
per il dialogo e gli studi
religiosi in Terra Santa”
di Gerusalemme.
Identità
Da bambino aiutavo mio padre, un contadino, e portavo le mucche a pascolare fuori del nostro villaggio. Sentivo parlare delle nostre noci, ma non ne avevo mai vista una. Eravamo poveri. Un giorno andai in un terreno e raccolsi finalmente un po’ di questi frutti sconosciuti. Tornai a casa correndo e gridando di gioia. Ma mio padre, viste le noci, iniziò a sgridarmi, dicendo di non permettermi più di prendere cose che non ci appartenevano. Mi scusai ma non capivo. Poi vidi mia madre piangere. E non capivo. Mio padre mi portò nel campo e io gli indicai l’albero. Lui gettò via le noci.
Solo molti anni più tardi capii la rabbia di mio padre e il pianto di mia madre: nel 1948 il villaggio della famiglia di mia madre fu distrutto dai soldati israeliani. Il villaggio sorgeva sul posto dove io ero andato a raccogliere noci. Quell’albero apparteneva a mio nonno. Dal 1948 la famiglia di mia madre, tranne lei, giovane sposa, era andata profuga in Libano. Mia madre aveva visto suo figlio mangiare le noci dell’albero che suo padre non aveva più potuto toccare. Ecco il suo pianto. Ecco la sua, la nostra identità negate. Mia madre è morta senza rivedere i suoi parenti. Noi arabi palestinesi non possiamo andare in Libano e nei Paesi arabi, perché sul nostro passaporto c’è scritto che siamo israeliani. Ma sulla carta d’identità che uso ogni giorno per viaggiare all’interno di Israele, c’è scritto che sono arabo.
E per questo sono discriminato e non godo degli stessi diritti di un cittadino ebreo israeliano. E questa è la lotta che portiamo avanti noi arabi cittadini di Israele: avere gli stessi diritti degli ebrei in Israele. Questa è la lotta dei palestinesi: avere uno Stato nella giustizia, vivere in libertà. Riappropriamoci della nostra comune identità.