“NELLA VERITÀ, LA PACE”

Un pastore vicino alla sua gente

È Michel Sabbah, Patriarca latino di Gerusalemme, il Pastore vicino alla sua gente.
23 gennaio 2006 - Marco Malagola, ofm

"L'amore è possibile malgrado tutto il male che stiamo vivendo". Con queste parole il Patriarca di Gerusalemme Michael Sabbah, l’11 dicembre 2005, dopo la funzione religiosa celebrata con la comunità cattolica del villaggio palestinese di Aboud, ha guidato la marcia pacifica di un migliaio di persone, cristiani e musulmani, verso il cantiere del “Muro” in costruzione sulle terre di Aboud nei pressi di Ramallah. Il corteo si è fermato a circa trecento metri dalle ruspe al lavoro, davanti al blocco dei soldati a protezione del cantiere. Il Patriarca ha quindi sostato in preghiera insieme alla comunità cristiana di Aboud e poi ha piantato un albero di ulivo, simbolo delle centinaia di alberi che verranno distrutti dal proseguimento dei lavori per la costruzione della Barriera Speciale a protezione degli insediamenti israeliani di Bet Arye e Ofarim.
Erano presenti alla manifestazione anche ebrei israeliani e cittadini internazionali. Il Patriarca ha affermato che "con la nostra fede e con il nostro amore, noi esigiamo la sparizione del muro e diciamo che la sua costruzione è un errore, un'aggressione contro i nostri terreni e le nostre proprietà, contro i rapporti amichevoli tra i due popoli. Trovate nella vostra fede e nel vostro amore la guida nella vostra azione politica e in ogni azione di resistenza a qualunque oppressione. L'amore è un linguaggio non conosciuto nella politica, ma, malgrado ciò, dovete renderlo possibile”.
Dopo la partenza del Patriarca, un centinaio di persone sono rimaste davanti al blocco dei soldati cantando slogan contro la costruzione del “Muro”. Nessuna violenza si è verificata tra manifestanti e militari ma, nonostante ciò, un cittadino di pace israeliano è stato arrestato dall'esercito e portato via. Nella mattinata un posto di blocco all'ingresso del villaggio ha impedito il passaggio per 40 minuti a diversi giornalisti accreditati presso il Ministero israeliano competente, venuti per filmare la Messa celebrata dal Patriarca.
Michel Sabbah è palestinese di Nazareth, cosa che fa di lui, con i francescani di Terra Santa che ne sono i Custodi ufficiali da oltre 800 anni, una figura di riferimento per i cristiani nella terra di Gesù. C’è chi lo vorrebbe più cauto nelle sue omelie e nei suoi messaggi; eppure, rileggendoli, si rimane sorpresi dallo spirito di pace e dall’invito alla riconciliazione delle sue parole; c’è chi desidererebbe da lui una diplomatica prudenza. Ma Sabbah non è un diplomatico. E’ semplicemente e soltanto un pastore che ama il suo popolo, che soffre per la sua gente, e, all’occorrenza, parla e corre in sua difesa. Del resto se c’è un Vangelo dell’annuncio, c’è anche un Vangelo della denuncia. Dalla sinagoga di Nazareh (Lc 4, 16-19) Cristo, Redentore e Maestro dell’uomo, echeggiando Isaia, partiva dalle parole del profeta per spiegare la sua stessa missione proclamandosi “mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione… per rimettere in libertà gli oppressi”.
“La pace è possibile - afferma il Patriarca - se solo si mettono in atto le scelte necessarie per dare a ciascuno la propria dignità. C’è bisogno che i politici facciano la loro parte, ma ancora di più serve che Dio doni ai capi di governo l’ispirazione della pace e del bene comune”. “Mi possono far dire tante cose che mi riguardano relativamente, però quelle che assolutamente non posso accettare sono due, dice il Patriarca:
1) che mi si attribuisca il fatto che io giustifico in qualche modo la violenza; 2) che si neghi quello che io da sempre continuo ad affermare: che siamo sottoposti a un regime ingiusto, che viviamo in una situazione permanente di ingiustizia. La pace si farà quando finirà l’occupazione”. È il suo ritornello. Sabbah non ama le reticenze. Pur misurando le parole, parla chiaro, sommessamente, si fa capire. Non ama i giri di parole. La verità la deve dire. Mi ricorda, al riguardo, ciò che mi disse anni fa il francescano cardinale Arns, già arcivescovo di San Paolo in Brasile: “La più grave minaccia ai diritti umani è il silenzio, il non far sapere, il non far conoscere al mondo cosa succede”.
Così è avvenuto circa gli orrori di Auschwitz. Si cade nello stesso errore. Il potere di turno non gradisce far conoscere la verità; la nasconde per i propri scopi servendosi di media politicamente affiliati. E’ la strategia politica delle verità nascoste e mistificate, dove la verità non viene detta tutta. Bisogna imparare a dubitare, bisogna e avere il coraggio della verità. “Bisogna saper buttare negli occhi della menzogna la verità, bisogna accecare la menzogna con la verità” scriveva papa Wojtyla nel suo dramma Geremia scritto sotto il regime comunista. “Nella verità, la pace”. E’ il titolo e il tema del forte messaggio che Benedetto XVI lancia per la Giornata della Pace 2006. Non c’è pace senza verità. Chi tace la verità non vuole la pace.
Dopo un anno di assenza dalla Terra Santa, lo scorso ottobre vi sono tornato per un periodo di due settimane. Non potevo non trovare il modo di recarmi almeno a Jenin e a Hebron per incontrare gli amici volontari di “Operazione Colomba” e di “Christian Peacemaker Team” che operano nei Territori occupati. Non sono avventurieri, ma testimoni discreti e silenziosi di una violenza che non si sa quando finirà. La loro riflessione sulla pace e sulla situazione di sofferenza di un popolo li ha portati a decidere di partire ed essere presenti là dove si soffre di più, anche a rischiare, senza alcun spirito d'eroismo, ma con l'umiltà di chi sa di rendersi utile ed aiutare la popolazione ad aiutarsi. Bisogna andare nei Territori per rendersi conto di cosa succede oltre il “Muro”. E allora il discorso cambia.

Nei Territori ho toccato con mano, ancora una volta, la sofferenza e la disperazione della popolazione palestinese. Purtroppo non si riflette abbastanza che è la disperazione di una vita che non è vita la causa prima dei deprecati attentati. Ho riascoltato racconti angoscianti di nuclei familiari divisi dal “Muro”, separati dalle proprie coltivazioni e dai mezzi di sussistenza, impediti di raggiungere i magri punti di vendita, andare al lavoro, seguire gli studi, visitare i propri parenti, malati impossibilitati a raggiungere gli ospedali, isolati dalle stesse istituzioni religiose. Ancora una volta ho potuto sperimentare l’umiliazione sopportata ogni giorno dai palestinesi ai numerosi posti di blocco, le lunghe snervanti attese sotto la pioggia e il sole. Il “Muro” è un monumento storico dell’aggressione umana. Ai pellegrini provenienti da ogni parte del mondo che si sono recati a Betlemme per le celebrazioni del Natale non è certamente sfuggito quel muro alto nove metri, tristemente impressionante nella sua mastodontica costruzione che chiude come in una morsa la cittadina dove per la prima volta è stata annunciata la pace agli uomini che Dio ama. Essi sono stati attoniti testimoni di uno scenario sconvolgente.

Andiamo avanti coltivando e diffondendo speranza. Il Patriarca Sabbah non manca mai di invitare alla speranza. Giovanni XXIII inaugurò la stagione della “Pacem in terris”, Paolo VI si espresse una volta così: “Vi sono tempi in cui l’unico realismo è quello delle utopie”. Oggi dialogo e nonviolenza non sono soltanto utopie ma vie possibili e concrete per uscire dalla violenza e imboccare decisamente il cammino della pace.

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