Il rischio di una riforma
Alla vigilia del referendum la parola a Caselli.
La
giustizia è al collasso. Vero è che lo stesso ministro, per bocca del
direttore generale dell’organizzazione, non molto tempo fa raccomandava ai
dirigenti di “effettuare un rigoroso controllo sulle spese effettuate dagli
uffici dipendenti, invitandoli a limitarsi a quelle strettamente necessarie per
il funzionamento minimale degli stessi”. È chiaro però che senza farina non
si fa pane. E ciò significa rischio di minor sicurezza e di minor tutela dei
cittadini.
Ingiusta
e inefficiente
La
mancanza di risorse colpisce in modo particolare il personale amministrativo:
dal 2001 non è stato svolto alcun concorso per nuove assunzioni, con una
scopertura dell’organico che si attesta sul 14% a livello nazionale, ma giunge
in alcune sedi del Nord a punte del 30%. Per contro, il ministro si vanta
(Relazione alle Camere 17/18 gennaio) che il personale amministrativo è stato
portato da “44.027 presenze a 42.673, in ottemperanza agli obiettivi di fondo
del governo relativamente alla diminuzione della spesa pubblica”. Ma così
dimentica che come un ospedale non può funzionare adeguatamente senza il giusto
numero di infermieri e senza sale operatorie e medicine o un’officina senza
operai e pezzi di ricambio, così un tribunale non può funzionare senza
segretari o cancellieri e senza le attrezzature indispensabili. Oltre che
inefficiente, la giustizia italiana è ingiusta, perché il nostro sistema
penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici, uno per
le persone “comuni” e uno per le persone considerate, in base al censo,
comunque per bene: codici destinati – il primo – a segnare la vita e
i corpi delle persone e – il secondo – a misurare l’attesa che il tempo si
sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione. Due binari
anche per i delitti e le pene. Lo dimostra il confronto fra la sanzione per lo
straniero che non ottemperi all’ordine del questore di abbandonare il
territorio dello Stato (quattro anni di reclusione nel massimo), con le pene
previste – quando sono previste – per il falso in bilancio. E il doppio
binario è stato aggravato dalla riesumazione di una tipologia d’autore ad
opera della legge c.d. “ex Cirielli”, destinata a colpire ferocemente le
fasce più deboli. Le gravi insufficienze riscontrabili sul piano
dell’organizzazione della giustizia (di competenza del ministro, in base
all’articolo 110 Costituzione) si intrecciano inestricabilmente con il
tentativo di “governare i giudici” che ha caratterizzato questi ultimi anni.
La difesa “dal” piuttosto che “nel” processo, gli insulti quotidiani e
le leggi ad personam hanno avuto come sbocco finale la riforma
dell’ordinamento giudiziario, con i vari profili di incostituzionalità che la
affliggono. Una riforma che si propone di assoggettare i giudici al controllo di
un potere politico che per se stesso è refrattario ai controlli. Una riforma
grazie alla quale la cultura che ha impregnato la lettura della vicenda
giudiziaria italiana negli ultimi anni è diventata legge.
Riforma
dei giudici
La riforma dell’ordinamento giudiziario non è una riforma della giustizia, ma dei giudici, perché disegna un nuovo modello di magistrato, le cui caratteristiche sono quelle del conformista-burocrate. Ma il conformismo e la burocrazia sono di ostacolo all’indipendente esercizio della giurisdizione (condizione indispensabile per tendere al traguardo dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge). E sono nemici giurati della ricerca della verità a trecentosessanta gradi, che è sempre faticosa e anche rischiosa ogni volta che si incrociano determinati interessi. Dà fastidio il magistrato che adempie i suoi doveri con rigore, dà fastidio a chi preferisce “servizi” piuttosto che decisioni imparziali. E mal tollera, per questo, magistrati indipendenti. L’intreccio fra l’inefficienza organizzativa e il tentativo di “governare i giudici” porta a chiedersi se anche la prima non sia frutto di una scelta. Una scelta indirizzata all’indebolimento della giurisdizione come garanzia del rispetto delle regole, nel quadro più generale della concentrazione del potere e della riduzione delle funzioni di controllo (cui sembra funzionale anche la riforma della Costituzione, ancora soggetta a referendum popolare). Una scelta da contrastare, operando – invece che sul versante del regolamento dei poteri, com’è avvenuto in questi anni – sul versante della giustizia-servizio, che interessa più direttamente i cittadini, essendo la sua efficienza decisiva per la tutela dei diritti.
Segnaliamo:
L. Pepino, Andreotti, la mafia, i processi, EGA, Torino 2005.
G.C. Caselli, Un magistrato fuori legge, Melampo, Milano 2005.