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Il rischio di una riforma

Magistrato, scrittore. Autore di due libri recenti sul collasso della giustizia.
Alla vigilia del referendum la parola a Caselli.
Giancarlo Caselli

La giustizia è al collasso. Vero è che lo stesso ministro, per bocca del direttore generale dell’organizzazione, non molto tempo fa raccomandava ai dirigenti di “effettuare un rigoroso controllo sulle spese effettuate dagli uffici dipendenti, invitandoli a limitarsi a quelle strettamente necessarie per il funzionamento minimale degli stessi”. È chiaro però che senza farina non si fa pane. E ciò significa rischio di minor sicurezza e di minor tutela dei cittadini.

Ingiusta e inefficiente

La mancanza di risorse colpisce in modo particolare il personale amministrativo: dal 2001 non è stato svolto alcun concorso per nuove assunzioni, con una scopertura dell’organico che si attesta sul 14% a livello nazionale, ma giunge in alcune sedi del Nord a punte del 30%. Per contro, il ministro si vanta (Relazione alle Camere 17/18 gennaio) che il personale amministrativo è stato portato da “44.027 presenze a 42.673, in ottemperanza agli obiettivi di fondo del governo relativamente alla diminuzione della spesa pubblica”. Ma così dimentica che come un ospedale non può funzionare adeguatamente senza il giusto numero di infermieri e senza sale operatorie e medicine o un’officina senza operai e pezzi di ricambio, così un tribunale non può funzionare senza segretari o cancellieri e senza le attrezzature indispensabili. Oltre che inefficiente, la giustizia italiana è ingiusta, perché il nostro sistema penale si caratterizza ormai per la compresenza di due distinti codici, uno per le persone “comuni” e uno per le persone considerate, in base al censo, comunque per bene: codici destinati – il primo – a segnare la vita e i corpi delle persone e – il secondo – a misurare l’attesa che il tempo si sostituisca al giudice nel definire i processi per prescrizione. Due binari anche per i delitti e le pene. Lo dimostra il confronto fra la sanzione per lo straniero che non ottemperi all’ordine del questore di abbandonare il territorio dello Stato (quattro anni di reclusione nel massimo), con le pene previste – quando sono previste – per il falso in bilancio. E il doppio binario è stato aggravato dalla riesumazione di una tipologia d’autore ad opera della legge c.d. “ex Cirielli”, destinata a colpire ferocemente le fasce più deboli. Le gravi insufficienze riscontrabili sul piano dell’organizzazione della giustizia (di competenza del ministro, in base all’articolo 110 Costituzione) si intrecciano inestricabilmente con il tentativo di “governare i giudici” che ha caratterizzato questi ultimi anni. La difesa “dal” piuttosto che “nel” processo, gli insulti quotidiani e le leggi ad personam hanno avuto come sbocco finale la riforma dell’ordinamento giudiziario, con i vari profili di incostituzionalità che la affliggono. Una riforma che si propone di assoggettare i giudici al controllo di un potere politico che per se stesso è refrattario ai controlli. Una riforma grazie alla quale la cultura che ha impregnato la lettura della vicenda giudiziaria italiana negli ultimi anni è diventata legge.

Riforma dei giudici

La riforma dell’ordinamento giudiziario non è una riforma della giustizia, ma dei giudici, perché disegna un nuovo modello di magistrato, le cui caratteristiche sono quelle del conformista-burocrate. Ma il conformismo e la burocrazia sono di ostacolo all’indipendente esercizio della giurisdizione (condizione indispensabile per tendere al traguardo dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge). E sono nemici giurati della ricerca della verità a trecentosessanta gradi, che è sempre faticosa e anche rischiosa ogni volta che si incrociano determinati interessi. Dà fastidio il magistrato che adempie i suoi doveri con rigore, dà fastidio a chi preferisce “servizi” piuttosto che decisioni imparziali. E mal tollera, per questo, magistrati indipendenti. L’intreccio fra l’inefficienza organizzativa e il tentativo di “governare i giudici” porta a chiedersi se anche la prima non sia frutto di una scelta. Una scelta indirizzata all’indebolimento della giurisdizione come garanzia del rispetto delle regole, nel quadro più generale della concentrazione del potere e della riduzione delle funzioni di controllo (cui sembra funzionale anche la riforma della Costituzione, ancora soggetta a referendum popolare). Una scelta da contrastare, operando – invece che sul versante del regolamento dei poteri, com’è avvenuto in questi anni – sul versante della giustizia-servizio, che interessa più direttamente i cittadini, essendo la sua efficienza decisiva per la tutela dei diritti.

Segnaliamo:

L. Pepino, Andreotti, la mafia, i processi, EGA, Torino 2005.

G.C. Caselli, Un magistrato fuori legge, Melampo, Milano 2005.

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