Missione comune
Due
settimane, questo è il tempo trascorso in Africa tra Camerun e Repubblica
Centrafricana. Troppo poco per riuscire a immergerci e capire questi Paesi e le
loro innumerevoli provocazioni e contraddizioni. Tempo sufficiente per farsi
interrogare e tornare in Europa con tante emozioni nel cuore e tante idee e
quesiti che la realtà ci ha posto. Lo scopo di questo viaggio era conoscere il
lavoro delle comunità di suore domenicane in questi Paesi, e vedere come
interconnettere questo con ciò che facciamo noi presso gli uffici
internazionali della Famiglia domenicana. Il nostro è stato soprattutto un
viaggio di ascolto, per cogliere dai loro vissuti e racconti la complessità
della missione in realtà e con popoli che hanno paradigmi culturali e
cosmovisioni molto diversi dai nostri. La difficoltà di comprendere alcuni
riti, alcune credenze e tradizioni non è sentita solo dalle religiose europee,
ma anche dalle suore di Paesi africani che, attraverso lo studio, i viaggi e la
riflessione, stanno relativizzando alcune prospettive e punti di vista della
propria cultura.
Salute
globale
L’educazione e
la salute globale sono i comuni denominatori dell’impegno domenicano in questi
Paesi. L’approccio con cui affrontano questi impegni è di promozione e non di
assistenzialismo: “aiutare le persone a riprendere la loro vita in mano”,
“mettere la persona umana in piedi”... Ecco le finalità che le accompagnano
durante il lavoro. Particolare rilevanza la sta assumendo il progetto MISSIONE
COMUNE, ideato, progettato e realizzato da ben 7 congregazioni di suore
domenicane del Camerun. Questo il loro obiettivo: “Noi, Suore Domenicane del
Camerun (SDC), sensibili alle numerose sofferenze della popolazione, abbiamo
ritenuto necessario creare un centro polivalente, dove attraverso prestazioni
mediche, sociali e spirituali, noi cerchiamo di rimettere globalmente l’uomo
in piedi”. Il Centro, diventato realtà il 3 novembre 2005, giorno in cui si
ricorda San Martín de Porres al quale il centro è dedicato, si trova in una
struttura affittata in un quartiere molto popolare e povero poco fuori il centro
di Yaoundé. Il centro è polivalente perché desidera prendersi cura della
persona umana nella sua interezza, ma non in modo assistenzialistico: cure
mediche, accompagnamento spirituale, sostegno affettivo e psicologico.
“Sorella, lo sa il mio cuore parla troppo”, questo lo sfogo di una donna con
Pilar, la suora che è responsabile dello spazio di ascolto nel centro. Pilar
lavora soprattutto con le donne, che sono le più esposte alle vessazioni e
all’emarginazione. Come ricorda Suor Costanza (suora domenicana camerunese):
“Qui le donne sono donne solo se hanno dei figli, magari anche senza marito,
ma senza figli non sei considerata donna. A noi suore infatti non ci considerano
donne”.
I
luoghi
La
rilevanza di questo centro non sta tanto in quello che fa, ma nel fatto che le
diverse congregazioni coinvolte hanno saputo accettare la sfida di collaborare,
uscendo dallo specifico del proprio carisma, osando di investire in una Missione
Comune, al di fuori del proprio “orticello sicuro”. Insieme si è più
efficaci, ci si supporta reciprocamente e si cresce di più. Voi mi direte che
non è possibile fare questo in ogni Paese di missione! È vero lo abbiamo
verificato in Repubblica Centrafricana. Il Camerun è considerato un po’ la
perla dei Paesi dell’Africa Centrale, il livello di vita e il livello di
scolarizzazione è più elevato di altri Paesi africani. Anche il numero dei
religiosi è alto, solo come famiglia domenicana ci sono più di 10
congregazioni tra suore, monache, frati e laici. La Repubblica Centrafricana è
più isolata, sconosciuta, dimenticata. I Paesi visitati sono poveri, nel senso
che non c’è garanzia quotidiana di cibo, medicine e acqua sufficienti per
condurre una vita dignitosa. Spesso la quotidianità è un’affannosa scommessa
per guadagnare qualche soldo o per cercare di raggiungere almeno un pasto al
giorno. La ricerca di altre cose diventa profondamente secondaria. Il desiderio
di cambiare la realtà così opprimente può lasciare il posto all’apatia,
alla paura, all’indifferenza, alla guerra dei poveri contro altri poveri, alla
corruzione, all’abuso del potere. Ho visitato i luoghi di vita nei quali
religiose, religiosi, laici, laiche lavorano per offrire delle opportunità
culturali, formative, di crescita umana alla popolazione locale. Ogni volta che
uscivo da una scuola, da una parrocchia, da una comunità sentivo sorgere in me
un’inquietudine. La frustrazione di dire “quando queste gocce diventeranno
finalmente un lago, un mare che possa realmente cambiare radicalmente la vita di
un popolo piegato, oppresso da anni di colonizzazione più o meno sottile?”
Spesso nell’ambito missionario si vive un po’ un “gap” tra coloro che
lavorano sul campo, a contatto con i bisogni reali e intenti a dare risposte
immediate ai tanti gridi del popolo; e coloro che invece esercitano il loro
servizio in un ufficio, cercando di fare pressione sui governi e le istituzioni
perché cambino le politiche e le relazioni internazionali, o coscientizzando
l’opinione pubblica che esiste un’altra fetta di mondo quasi totalmente
ignorata.
Missionarie
Un
modo di fare missione non è migliore dell’altro, è solo diverso negli
strumenti e nell’approccio. Grazie alle risorse della globalizzazione
(tecnologie, scambi, circolazione delle informazioni) la missione può
aggiornare il suo volto: essere presenti in un luogo solo per avere vocazioni o
per fare assistenza, credo non valga la pena. Operare con consapevolezza
localmente, per migliorare la vita dei popoli, e pensare globalmente, inserendo
il proprio lavoro in un quadro politico, sociale ed economico più ampio, dà un
senso diverso alla missionarietà. Ragionando così il “gap” tra locale e
globale si assottiglia notevolmente e si diventa più efficaci perché si lavora
in rete. Il nostro modo abituale di parlare di questi Paesi è dire
“l’Africa è ...”, come se l’Africa fosse un continente, un blocco
unico, una realtà indistinta. Non accade la stessa cosa quando dialoghiamo di
America Latina, verso la quale la consapevolezza dei nomi e l’ubicazione di
ciascun Paese è molto più alta e diffusa. Questa percezione porta con sé la
conseguenza che a questo Paese manca un’immagine internazionale reale. Molti
sono i “sentito dire” o le immagini stereotipate che assorbiamo dai mass
media. L’isolamento politico e sociale dell’Africa (forse conseguenza o
effetto di quello economico) contribuisce alla violazione sistematica e impunita
dei diritti umani, esercitata spesso da africani contro altri africani. Lo
sforzo che andrebbe fatto è di comprendere che molte delle soluzioni ai
problemi dell’impoverimento africano risiedono non solo a livello locale, ma
sul piano delle relazioni commerciali ingiuste a livello globale. Bisogna fare
pressione dove le decisioni vengono prese, non solo dove vengono subite! Quando
una violazione dei diritti umani non è più solo un problema locale, ma diventa
argomento di dibattito internazionale, la percezione del Paese cambia: cambia
negli occhi di chi guarda se stesso e negli occhi di chi osserva dall’esterno.
Questo interessamento e questa mobilitazione internazionale favoriscono il Paese
senza però mettere in pericolo i/le religiosi/e presenti localmente. Chi opera
in luoghi di frontiera ha diritto alla paura, ha diritto a proteggersi. Non è
una vergogna sentirsi inadeguati, impotenti, o timorosi di osare, di prendere
l’iniziativa. La comunicazione in molti Paesi dell’Africa è molto
difficile, sia attraverso il telefono che la posta elettronica. Come possiamo
aiutarci a includere in questa rete di contatti e di relazioni che stiamo
tessendo anche le nostre sorelle e i nostri fratelli africani? Perdonate i miei
occhi e il mio cuore per l’arroganza con la quale talvolta hanno espresso
giudizi o azzardato interpretazioni su ciò che hanno visto e sentito. Lascio a
voi l’invito di andare e gustare questi Paesi con la vostra sensibilità...