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Una
grande attesa ha preceduto la pubblicazione della prima enciclica di Benedetto
XVI. Si attendevano in particolare indicazioni e linee programmatiche del nuovo
pontificato, segnali di discontinuità e di novità rispetto a quello di
Giovanni Paolo II. Cosa emerge a questo proposito,secondo voi,dalla lettura del
testo?
Marco
Politi, vaticanista de La Repubblica: Appare ormai chiaro
che papa Ratzinger non è pressato dall’urgenza di fare un’enciclica
programmatica. Al fondo il nuovo pontefice pensa che durante il pontificato di
Wojtyla sia stato scritto e detto tanto (e forse troppo, secondo il suo punto di
vista) che è giusto inaugurare una fase di pausa, di sobrietà e di
elaborazione della produzione magisteriale precedente. Così l’enciclica
corrisponde al suo obiettivo di concentrarsi sull’essenziale del messaggio di
fede e, per quanto riguarda il momento attuale segnato da fondamentalismi
violenti e da egoismi economici, Benedetto XVI sente la necessità di proporre
il nocciolo del Cristianesimo: Dio è amore. Chi ama Dio non può odiare il
prossimo. Chi fa la comunione deve “creare” la comunione.
Raniero
La Valle, giornalista, già parlamentare: A giudicare dai
dibattiti – anche televisivi – sul primo anno di pontificato di Benedetto
XVI, il nuovo Papa non è ancora decifrabile. Tuttavia un giudizio basato sulla
continuità o discontinuità rispetto a Giovanni Paolo II non porta da nessuna
parte. L’atto più importante del primo anno è stato l’enciclica ed essa si
pone su tutt’altro piano, perché salta ogni recinto istituzionale e riporta
l’attenzione su Dio; e lo evoca secondo quello che fino a questo momento è il
culmine sia dell’esperienza umana del divino, sia dell’autorivelazione di
Dio, cioè mediante l’affermazione, umana e divina, che Dio è amore. Questa
semplice formulazione su Dio è oltre ogni religione costituita, ne costituisce
il punto finale, il punto omega, cui tendere, e nello stesso tempo è prima di
ogni differenziazione religiosa, prima anche di ogni discussione di continuità
o discontinuità, perché riconduce alla sorgente, alla fons da cui ogni
religione e ogni esperienza umana del divino scaturiscono. Di più, questa
definizione di Dio come amore non è complementare, aggiuntiva, ma alternativa
ad altre percezioni di Dio, ad esempio a quella che essenzialmente lo descrive
come il Dio del Giudizio, tanto che lo stesso Benedetto XVI lo segnala quando
dice paradossalmente che l’amore di Dio “è talmente grande da rivolgere Dio
contro se stesso, il suo amore contro la sua giustizia” (n. 10). Per questo
motivo l’enciclica mi è apparsa bellissima e nuova rispetto alla serie delle
encicliche sociali o ecclesiologiche, che fin dalle loro prime parole mettevano
avanti le ragioni della società o quelle della Chiesa. Qui la ragione di tutto
è Dio, l’unica cosa per la quale la Chiesa esiste, e senza la quale sarebbe
un mostro, e dalla quale tutte le altre acquistano senso e vigore.
Adnane
Mokrani, giornalista AdnKronos, teologo islamico: Deus
caritas est, Dio è amore (1 Gv 4,16). Tutto è qui, in questo est. Che cosa
è l’amore? L’amore è. L’amore ci spiega a noi stessi. L’amore è
essere e vita che agisce e si manifesta in forme e modi infiniti. L’amore è
un tema centrale per l’essere umano, e quindi per la religione che dovrebbe
interessarsi alla pienezza della donna e dell’uomo. I temi esistenziali sono
difficili da trattare, è difficile parlare dell’esistenza, dell’essere,
della vita nel loro senso più profondo. Questi temi trascendono tutti i
discorsi, e nessun discorso può esaurire i loro misteri che si manifestano ogni
giorno con un nuovo volto e un nuovo orizzonte. Ma, essendo umani, non possiamo
evitare la parola, pur riconoscendo i suoi limiti. Il papa Benedetto XVI ha
scelto come tema della sua prima enciclica l’amore, Dio è amore, un tema
essenziale ed esistenziale per tutta l’umanità, che in una certa maniera
rappresenta il riassunto più indicativo del messaggio cristiano. Il
Cristianesimo non ha creato l’amore, ma la novità della formula giovannea sta
nell’ est, è nell’osare identificare Dio con l’amore, proprio tramite
l’essere. Questo est contiene tutto. Per un musulmano che ha una certa
famigliarità con la mistica akbariana (la mistica di Muhyi al-Din Ibn Arabi,
1164-1240), questo est ha un suono particolare. Nella dottrina
dell’Unicità dell’Essere, wahdat al-wujud, Dio è identificato con
l’Essere, è Lui l’Esistente, Fonte di tutti gli esistenti, e fuori di Lui
non c’è nulla. Questo respiro esistenziale ha dato alla spiritualità
islamica un dinamismo e una energia mai raggiunte dalla teologia classica. È un
livello d’unità che va oltre il dualismo teologico (razionale), verso un tawhid,
unicità di Dio, più radicale.
Rispetto
al tema trattato,il Papa ripropone verità di fede tradizionali e ben radicate
nel la cultura dei credenti e usa in forma semplice e accessibile (per tutti i
lettori)gli argo menti del grande teologo senza disdegnare i riferimenti
letterari e filosofici di diversa radice. Come si possono valutare le scelte di
stile e di linguaggio dell’enciclica?A qua li finalità potrebbero
corrispondere?
Marco
Politi:
Nell’enciclica come anche nelle omelie, e specialmente nelle prediche durante
le visite in parrocchia o dinanzi a un uditorio trasversale di pellegrini,
Benedetto XVI parla con una grande semplicità, pregnanza e – per chi ascolta
– anche con bellezza di immagini e concetti. Questo è proprio il suo stile,
la sua caratteristica di predicare il Vangelo in modo intimo, essenziale, che
aiuti il fedele a comprendere e a partecipare. Verità tradizionali? Forse. Ma
esposte in modo non trito. E probabilmente tutto ciò corrisponde a una larga
fascia di credenti che ha bisogno di un punto di riferimento un po’ pacelliano:
sicuro, autorevole e (per quanto riguarda la natura autentica di Ratzinger)
anche delicato e sensibile.
Adnane
Mokrani:
La formula, l’espressione illuminante Dio è amore, ci aiuta a
riscoprire le verità innate e dimenticate; come dice il Corano “e ricorda,
che il ricordo giova ai credenti” (Corano 51, 55).
A
proposito delle categorie filosoficoteologiche utilizzate,come ad esempio quella
di eros e di agape,si è parlato di svolta e di novità nell ’approccio tra
magistero e scienze umane. Per quali motivi può essere o non essere
condivisibile tale pista interpretativa?
Marco
Politi:
Direi di non esagerare con l’esaltazione della novità. Aver presentato un
intreccio e un rapporto tra eros e agape è molto bello e
rappresenta anche uno sviluppo dell’intuizione conciliare, che volle il
matrimonio istituito non solo per la procreazione dei figli, ma anche della
“mutua donazione” dei coniugi. Resta però assente dall’orizzonte del Papa
attuale come del magistero ecclesiale nel suo complesso un’analisi seria della
sessualità, un superamento della demonizzazione dei rapporti prematrimoniali,
una riflessione su ciò che significa lo spezzarsi (e l’impossibilità di un
riannodarsi) dell’intesa coniugale, un esame serio dei rapporti d’amore
omosessuali. Sono passati tanti anni da quando il cardinale Martini propose un
nuovo Concilio per affrontare una serie di temi precisi, fra cui anche quello
della sessualità. La domanda resta inevasa e credo che dovremo attendere il
pontificato post-ratzingeriano.
Raniero
La Valle: Riguardo al linguaggio mi sembra di grande importanza il
fatto che l’enciclica, per parlare dell’amore di Dio, usi il termine eros,
che in genere è riservato a identificare l’amore umano, e quel particolare
amore che è legato alla carne della donna e dell’uomo. La parola eros è
usata solo due volte nella traduzione greca dell’Antico Testamento (dei
Settanta) e mai nel Nuovo, dove amore è reso piuttosto con la parola agápe.
Naturalmente non si tratta, nell’enciclica, solo di una sottigliezza
linguistica, ma di un’opzione teologica e antropologica. L’amore è uno
solo, quello di Dio e quello dell’uomo. Certamente l’amore umano deve sempre
essere purificato – cioè liberato da ciò che lo contraddice – in un
incessante salire verso l’alto e scendere verso il basso come sulla scala di
Giacobbe. Ma se così stanno le cose, allora in ogni amore umano, se è amore,
per quanto impoverito, disprezzato o non legittimato dai codici e dai riti,
residua un barlume, una traccia dell’amore che è Dio. Questa è la buona
notizia che alfine è venuta dalla Chiesa. Perciò dispiace l’unica cosa
sbagliata dell’enciclica, che è il suo indirizzo, la delimitazione dei suoi
destinatari, che non dovevano essere solo i membri della Chiesa ma, come fu per
la Pacem in terris, “tutti gli uomini di buona volontà”.
Adnane
Mokrani:
Il Papa nell’enciclica ha toccato un tema molto delicato e attuale: il
rapporto tra eros e agape, insistendo sul valore del corpo e sulla
complementarietà di corpo e anima. Il Papa vuole, infatti, rispondere a una
critica molto diffusa contro il cristianesimo e contro le religioni in generale,
di glorificare lo spirito a discapito del corpo. Egli dice: Non sono né lo
spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come
creatura unitaria, di cui fanno parte corpo e anima. Solo quando ambedue si
fondono vera mente in unità, l’uomo diventa piena mente se stesso. Solo in
questo modo l’amore – l’eros – può maturare fino alla sua vera
grandezza. Tutto il problema, secondo me, è nel passaggio dall’eros
all’agape, dall’amore possessivo all’amore donativo, dall’amore
che soffre all’amore che si offre, senza necessariamente escludere né
l’eros né l’agape; l’uno dà la concretezza e l’immanenza e l’altro dà
la trascendenza e lo spirito. È una questione di maturità umana, in cui la
religione dovrebbe avere un ruolo fondamentale nell’iniziazione e
nell’educazione tramite esempi concreti d’amore vissuto, donato e ricevuto.
L’educazione all’amore è il nucleo centrale della spiritualità,
dell’umanizzazione-divinizzazione dell’essere umano, e il metodo efficace è
la liberazione dall’egoismo, individuale e collettivo, la liberazione dalle
tentazioni esplicite e sottili del potere e del dominio, che si manifestano
nelle famiglie come negli stati. L’egoismo e il potere sono gli ostacoli
principali nella via dell’amore, soprattutto quando si presentano sotto la
maschera della religione e nel nome di Dio. L’amore non è una questione di
parole ma piuttosto di iniziazione alla vita piena e vera, essere in Dio è
essere nell’Amore. Per me, orientale, non è abituale l’uso delle categorie
della teologia e della filosofia per analizzare il tema dell’amore. In
Oriente, e non solo, si usa piuttosto la poesia, il racconto, il mito. La Bibbia
stessa li usa per trasmettere la carica simbolica ed emotiva dell’amore.
Il
papa nell’enciclica sembra muoversi in un ’ottica prevalentemente
eurocentrica.Si può considerare ecumenica, nell’accezione più ampia del
termine,la lettera “Deus Caritas est ”?Quali difficoltà di lettura e di
accoglienza potrebbero incontrare le Chiese e le teologie non europee?
Marco
Politi: Di per sé le linee portanti dell’enciclica, nel loro
accentuare che il Cristianesimo “è amore”, sono tutto sommato funzionali a
una lettura trasversale nell’ecumene cristiana: valide per un ortodosso
come per un anglicano, per un evangelico come per un cattolico. Più datate mi
sembrano semmai le parti che polemizzano ex post con l’impegno
eccessivamente sociale dei preti. Riguardo all’ecumenismo Ratzinger è a un
bivio. Il suo primo discorso implica scelte concrete nell’organizzazione
interna della Chiesa cattolica e nella definizione delle relazioni con chiese
che necessariamente dovranno essere considerate come “sorelle”, cioè non
subordinate. Il tempo corre. Se fra due anni non si vedranno i segni di un
qualche risultato, si dovrà dire che la scommessa è stata persa.
Raniero
La Valle: È vero, il Papa parla da dentro una cultura, che
presumibilmente è quella europea, anche se ciò non vuol dire necessariamente
eurocentrica. Tutti parlano in una cultura. Anche Gesù, e perciò era “vero
uomo”. Però dalla cultura europea il Papa estrae la concezione più alta cui
la cultura europea è pervenuta, e che ha impatto e valore universale. Essa
riguarda la politica che, contro le dottrine nichilistiche e quelle imperniate
sul criterio dell’amico-nemico, è definita come lo strumento della giustizia.
Anzi, senza la giustizia la politica non avrebbe neanche titolo a esistere:
perché la politica, secondo l’enciclica, ha nella giustizia “la sua
origine, il suo scopo” e anche la sua “misura”. Ciò naturalmente si
estende alla definizione dello Stato che, contro la giustificazione
dell’assolutismo fornita da Thomas Hobbes, esiste per il perseguimento della
giustizia, al punto che senza questa – remota iustitia – gli Stati
non sarebbero che dei grandi ladrocinii, come diceva S. Agostino, o “una banda
di ladri”, come traduce papa Benedetto. Ma, al di là delle citazioni antiche,
la modernità dell’enciclica si rivela laddove essa prova a dire quale sia il
contenuto della giustizia che agli Stati e alla politica tocca realizzare; esso
consiste nel garantire a ciascuno la sua parte dei beni comuni: problema questo
che si è posto in modo del tutto nuovo quando col sorgere dell’industria
moderna il rapporto tra capitale e lavoro è diventato la questione decisiva,
dal momento che “le strutture di produzione e il capitale” sono divenuti
“il nuovo potere che, posto nelle mani di pochi, comportava per le masse
lavoratrici una privazione di diritti contro la quale bisognava ribellarsi”.
“Bisognava” ribellarsi: e quella ribellione ha dato i suoi frutti. Questa è
una cosa che la Chiesa ha capito solo lentamente, come ammette papa Benedetto,
ma oggi ne rende atto. E tuttavia, anche quando la giustizia degli Stati, anche
in virtù di quella ribellione, fosse adempiuta, non per questo verrebbe meno la
necessità dell’amore e delle opere di carità che ne derivano, per
giustificare le quali l’enciclica non ricorre mai all’argomento che “i
poveri li avrete sempre con voi”, parola di cui spesso ci si è serviti per
legittimare il perdurare di assetti sociali iniqui e per fornire ai ricchi la
via per cavarsela con poco con l’elemosina e salvarsi anche l’anima. Dunque,
dal kerigma alla ribellione, e poi di nuovo all’amore: è un bel tratto
di strada che l’enciclica compie; la sua accoglienza o il suo rifiuto, dentro
la chiesa cattolica o a livello ecume nico o nella grande cultura laica da oggi
dipendono dalla disponibilità a percorrere questa strada.
Adnane Mokrani: La prima parte dell’enciclica
risponde a Friedrich Nietzsche, e la seconda parte a Carl Marx, due grandi
filosofi tedeschi. Ancora come orientale, vedo nell’amore un tema rilassante,
che, per sua natura non può essere affrontato con la polemica. La forza
dell’amore è invasiva, sicura, riempie il cuore e non lascia spazio per i
dubbi. Invece il discorso teologico, che è razionale, è polemico per sua
natura. Questa non è una critica, è un parere di una persona che osserva
partendo da un’altra cultura e da un’altra religione. Forse abbiamo bisogno
del dialogo dell’amore, dove il Gange e il Tevere si abbracciano e condividono
i beni spirituali. Alcuni dicono che lo slogan dell’islam Allahu Akbar,
Dio è sempre più grande, sembra contraddire lo slogan cristiano Dio è amore.
L’islam conferma la trascendenza, invece il Cristianesimo conferma
l’immanenza, l’incarnazione e la vicinanza. Forse questo vale per un certo
Islam e un certo Cristianesimo. Ma se cerchiamo di mettere insieme i due slogan,
troviamo che: l’amore è sempre più grande, l’amore è un cammino
che cresce sempre, e che gradualmente abbraccia sempre di più Dio e gli uomini.
Non è un sincretismo che confonde le forme e le superfici, ma l’incontro
nell’essenziale, nel profondamente umano e divino, l’incontro nel Centro che
unisce. Lì Tutto è Amore.