ISLAM

Dietro il velo

Scontro di inciviltà: a colloquio con la scrittrice Nacéra Benali. Dalla voce di una donna, l’impegno per la dignità e la liberazione delle donne. E non solo.
A cura di Cristina Mattiello

Nacéra Benali è una giornalista algerina che vive e lavora in Italia da dieci anni, da quando cioè ha dovuto lasciare il suo Paese in seguito alle minacce di morte dei gruppi integralisti che hanno poi massacrato parte della sua famiglia. Da sempre impegnata nella battaglia per la democrazia, i diritti e l’emancipazione delle donne nei Paesi arabi, ha scritto recentemente un libro dal titolo Scontro di inciviltà. Italiani e musulmani: equivoci e pregiudizi (Sperling & Kupfer, Milano 2005). Ed è un vero, tragico “scontro di inciviltà” quello che si profila se non corriamo subito ai ripari innanzitutto attraverso una informazione corretta che dia conto dei molteplici aspetti di una questione così complessa.

Qual è l’intento principale del suo libro?
L’attualità ci porta spesso a parlare di integralismo e di terrorismo in relazione al mondo arabo e musulmano. Perciò mi sembrava veramente opportuno spiegare questi fenomeni ai lettori italiani che spesso non hanno elementi sufficienti per farsi un’idea completa e approfondita dell’argomento.
Prima di tutto, quando si parla del movimento integralista nei Paesi musulmani, bisognerebbe definirlo come la corrente “islamista”, che è quella ideologia che assume come strumento la religione musulmana per cercare di attuare un progetto politico: la creazione, nella maggior parte dei Paesi musulmani, di una repubblica islamica e l’instaurazione di uno Stato autoritario e totalizzante. I primi a combattere questa ideologia sono gli stessi musulmani, che sono abituati ad avere con la religione un rapporto moderato, equilibrato e che rifiutano di vedere la loro vita travolta da un giorno all’altro e di veder nascere nel loro Paese un regime, come è successo, ad esempio, in Iran dopo la rivoluzione islamica di Khomeini del 1979. In Algeria c’è stata una forte resistenza contro le ideologie integraliste e oscurantiste e la società civile ha pagato per questo un pesante tributo. Ricordiamo che più di 180.000 persone sono morte in meno di 8 anni, in maggioranza civili, intellettuali, giornalisti, donne, che si sono opposti con forza e con coraggio e senza armi al ricatto del terrorismo che aveva in sé il progetto di uno Stato integralista per il futuro dell’Algeria.
Ai nostri amici italiani e occidentali in generale ho cercato di dire che i primi a lottare contro questa minaccia sono gli stessi musulmani. Ovviamente il terrorismo è l’argomento più scottante. Un’organizzazione come Al Qaeda

Vivono da diversi anni in Europa, Italia, Francia, Germania... a stento riescono a parlare la lingua del Paese in cui si sono ritrovate a vivere, hanno figli nati in Europa ma che vorrebbero fossero prima ancora che figli loro, figli della terra: quella d’origine. Gli chiedono di mantenere promesse vecchie di secoli, in tempi non loro.
Sono arrivate alla fine degli anni Settanta sognando la libertà, immaginando di trovare le città che avevano visto nei film in bianco e nero, invece scoprono che l’unico modo per avere un ruolo riconosciuto è restare fedele ai modelli.
Se donne, ma soprattutto mogli, possono anche cambiare città, difficilmente però cambieranno marito-padrone, a meno che non sia lui ad andare a svernare da qualche altra parte.
Faiza Guene nel suo primo romanzo Kif kif domani racconta l’Europa, la Francia in particolare, con gli occhi di una ragazzina figlia d’immigrati, di chi si sente straniero nella sua terra e in quella d’origine dei suoi genitori.
Racconta, con molto humor, la storia di due donne, mamma e figlia. L’io narrante è Doria, una ragazzina di 15 anni, che ce la mette tutta per tirarsi fuori (diremmo emanciparsi in Occidente), insieme a sua madre, dallo stereotipo dell’immigrato, brutto, povero e sfigato. [...] il futuro ci preoccupa, anche se non dovrebbe, perché forse in fondo non ne abbiamo uno” perché kif, kif domani è sempre lo stesso...
Lo consigliamo a chi vuole fare un salto nelle banlieues per capire cosa c’è dentro.
A chi preferisce i racconti consigliamo Pecore nere, una raccolta di racconti di figli di immigrati nati e cresciuti in Italia, curata da Flavia Capitani ed Emanuele Coen. Racconti brevi e ben scritti che in maniera singolare raccontano il rapporto che questi ragazzi hanno con noi, descrivendo i nostri sguardi e le periferie mentali in cui viviamo.
Agata Diakoviez

Kif kif domani
di Faiza Guène, Mondadori
Pecore nere AA.VV., Laterza
quando minaccia tutti i Paesi europei senza distinzione. Ma dobbiamo ricordare che minaccia anche gli stessi Paesi musulmani.
Nel libro ho cercato anche di illustrare l’origine dei gruppi che sono riusciti a impiantarsi in molte metropoli europee, come Milano, Londra, Parigi, Bruxelles: sono stati gli stessi governi occidentali ad aver osservato per molti anni una specie di passività che ha permesso loro di installarsi, di raccogliere soldi, di organizzarsi e, per esempio, di mandare armi in Algeria per uccidere civili inermi. E ho ricordato che noi giornalisti algerini già agli inizi degli anni Novanta già denunciavamo questo lassismo: ci sembrava assolutamente intollerabile che un Paese democratico occidentale non intervenisse di fronte a gruppi che in modo aperto dichiaravano di voler cancellare la democrazia, cancellare la libertà, rinchiudere le donne e instaurare una megarepubblica islamica in tutto il mondo, non solo nell’area musulmana.
Purtroppo non siamo stati ascoltati e il risultato lo vediamo oggi. Anche parte della sinistra europea all’inizio guardava con un occhio un po’ solidale questi movimenti integralisti, considerati come una rivoluzione, un movimento alternativo ai poteri autoritari locali. Ma i veri rivoluzionari erano i democratici dei vari Paesi musulmani, mentre quei gruppi, non riconoscendo né la democrazia né i diritti umani, erano piuttosto una minaccia peggiore degli stessi governi autoritari. C’è stata una sottovalutazione del pericolo dell’islamismo, del quale oggi vediamo il lato più oscuro.

Oggi in Italia la situazione degli immigrati musulmani è, sotto tutti i punti di vista, molto difficile. Lei nel suo libro parla anche di quei politici, in particolare quelli della Lega, che “soffiano sul fuoco dell’islamofobia” e cerca di sfatare i pregiudizi e i luoghi comuni più diffusi. Crede però che, nonostante tutto, nella realtà quotidiana l’integrazione positiva sia ancora possibile?
Ovviamente ci sono migliaia di musulmani perfettamente integrati nella società italiana, che lavorano, mandano i figli a scuola: sono famiglie molto equilibrate, che fanno la vita dell’italiano medio. Però ci sono anche immigrati che sono relegati nelle periferie delle città industriali del Nord, che vivono tutti in uno stesso quartiere, una specie di ghetto e, poiché non usufruiscono di nessun programma di integrazione, cercano di vivere le proprie culture di origine in modo arretrato e riduttivo: si creano un ambiente tutto loro che spesso non ha niente a che fare neanche con la cultura di provenienza.

Rientra qui anche la questione del “velo”, che oggi in Occidente è al centro di tutti i discorsi, anche diversamente orientati, sul rapporto con il mondo musulmano.
Nel mio libro a questo ho dedicato tutto un capitolo, che ho provocatoria mente chiamato “Il velo e il falso”, perché spesso scopro che la questione del velo fa da alibi a molti analisti e giornalisti per non parlare dei veri problemi del mondo musulmano, soprattutto quelli che riguardano la donna. Noi francamente non capiamo questa ossessione, questa focalizzazione degli occidentali sul velo: nei Paesi musulmani non c’è una separazione dicotomica. Non tutte le donne lo portano: mia sorella, le mie amiche, le mie vicine, non lo portano, come me. La società è fatta così: c’è chi lo porta, chi non lo porta, ma non c’è nessuna separazione: donne velate e donne non velate vanno insieme all’università, lavorano insieme. È veramente una scelta personale, quando è una scelta. Spesso, però, purtroppo il velo viene imposto dai maschi della famiglia – padre, marito, fratello – attraverso il ricatto economico e dicendo alla donna che se non lo porta non può studiare, non può lavorare.
La questione è complessa. Una legge drastica come quella francese che addirittura esclude dalla scuola le ragazze velate è veramente eccessiva, perché queste donne di origine musulmana hanno tutto l’interesse a studiare, a integrarsi, a usufruire dell’educazione francese, a lavorare. Se vengono escluse, noi peggioriamo il loro status già precario. In Italia invece il governo, sul piano nazionale, ha avuto l’atteggiamento opposto a quello francese, nel senso che ha detto: “Non mi riguarda, fate quello che vi pare, io chiudo gli occhi, non voglio sapere”. Anche questa non mi sembra una soluzione, perché un conto è se una donna adulta, libera, sceglie di portare il velo: in tal caso non posso che accettare la sua scelta; un conto è se succede quello che vedo adesso in molte città italiane: bambine di dieci, otto anni che sono velate dai loro genitori.
Questo non si vede neanche nelle città di origine. Bambine così piccole non vengono velate: succede in generale dopo la pubertà. Qui vedo proprio una radicalizzazione di queste famiglie che, vivendo in un ghetto e non usufruendo di nessun programma di integrazione, vanno alla ricerca di un’identità che in fondo non è neanche loro. Per paura di perdere il controllo sui figli, di non riuscire a trasmettere la loro cultura di origine, cercano man mano di isolarli dalla società italiana e ovviamente fanno più leva sulle donne, perché pensano che siano più deboli. Allora con il velo stendono quasi una tenda, una separazione fisica tra la società dove vivono queste ragazze e la loro famiglia. E la cosa non si ferma lì. Ad esempio, si impedisce alle ragazze di fare sport, di frequentare i loro coetanei maschi, di farsi visitare da un medico uomo: una serie di divieti che limitano molto la loro vita e veramente le stigmatizzano.
In questi casi penso che lo Stato italiano, oltre che le organizzazioni impegnate in campo sociale per aiutare l’immigrazione, dovrebbero intervenire, perché credo che queste ragazze minorenni non possono essere lasciate a se stesse con padri che non hanno né il livello di istruzione né la consapevolezza sufficiente per aiutarle a integrarsi e anzi le danneggiano escludendole, creando intorno a loro questo muro di autosegregazione.

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