Relazione e danno

Al centro della giustizia biblica c’è la relazione. Non il danno. La colpa. Non il colpevole. Come la giustizia relazionale diventa retributiva nella nostra cultura. Intervista a padre Guido Bertagna, gesuita.
A cura di Anna Scalori

Esiste un’interpretazione molto bella del “porgi l’altra guancia” evangelico: chi ti percuote sulla guancia destra lo fa con un manrovescio, in quanto colui che viene percosso non è degno di essere toccato col palmo della mano. Offrendo l’altra guancia non viene opposta resistenza, ma viene rivendicata la propria dignità obbligando colui che percuote a retrocedere dal guardare l’altro come intoccabile. Non si risponde al male con il male, neppure per difendersi, ma accettando il male si introduce un potente elemento di cambiamento obbligando l’altro al riconoscimento del proprio valore in quanto persona. Ma questo non è ancora amare il proprio nemico... Come può esservi una relazione tra l’invito ad amare il proprio nemico e l’esigenza di giustizia di ciascuno?
Di fronte a questa originale interpretazione del “porgi l’altra guancia” del Vangelo secondo Matteo, espressione entrata anche nel parlare comune, possiamo anche ricordare una situazione che si trova a vivere Gesù durante la Passione e che entra in dialogo ideale con le parole del testo di Matteo. Si tratta dell’interrogatorio di Gesù davanti al Sommo Sacerdote nel racconto di Giovanni.
Nel momento in cui viene schiaffeggiato e percosso, Gesù non porge l’altra guancia ma interroga la persona che ha davanti e chiede: “Se ho fatto male dimostrami dov’è il male, ma se ho detto bene, perché mi percuoti?” È questo un mezzo per non risponde re al male con il male, in una maniera che sembra

Guido Bertagna
Guido Bertagna studia al liceo artistico e inizia a lavorare come restauratore nel 1979. Appena laureato in Lettere moderne, entra nella Compagnia di Gesù. Compie studi di Filosofia e Teologia a Padova, Napoli e Roma. Ordinato sacerdote nel 1996, l’anno successivo è a Milano, presso la Fondazione Culturale San Fedele. Dal 2002 è direttore del Centro Culturale San Fedele.
smentire una certa icona un po’ semplicistica, e qualche volta persino fastidiosa, di un cristianesimo “buonista”, arrendevole, o che dovrebbe essere sempre disponibile alla riconciliazione, un po’ caricaturalmente sempre disposto a subire.
Mi sembra che tutti questi discorsi siano spesso trattati semplicisticamente mentre l’insegnamento che viene dal passaggio del Vangelo di Giovanni è che Gesù fa una scelta di vera nonviolenza perché aiuta l’altro a prendere coscienza: da dove viene quel gesto violento? Quali sono le sue conseguenze? Quali le motivazioni? Gesù risponde con la parola a uno che non si sa rapportare a lui con la parola, cioè in modo umano. Gesù gli fa prendere coscienza della insensatezza di quel gesto violento.
Decisiva in Gesù è la ricerca di vie di umanizzazione attraverso la scelta di non restituire a quella persona che gli sta davanti come nemico, lo stesso volto che lui ha presentato a Gesù, cioè un volto violento. Lo ha trattato invece da essere umano. Non lo ha incasellato nello schema stretto e sempre troppo facile del “tu sei la tua colpa”. Non lo ha chiuso in quell’immagine che lui stesso gli ha mostrato, è questo l’aspetto importante, altrimenti anche l’amore per il nemico si smarrisce in una arrendevolezza superficiale e rassegnata, finanche disumana.
L’amore per il nemico dentro questo contesto è serio, prende corpo e diventa veramente una scelta umanizzante per me e per l’altro che mi colpisce. L’aspetto decisivo è che non identificando l’altro con il nemico non lo identifico neanche col gesto che ha fatto. Tu non sei la tua violenza. Tu non sei la tua colpa. La tua vita non si schiaccia e non si brucia in quella colpa.

Il Cristo ha incarnato l’agnello sacrificale, il capro espiatorio che assume su di sé tutto il male e la violenza per liberarne il mondo, perché la morte sia vinta e gli uomini abbiano la pace. Per rendere possibile l’avvento del suo Regno, che è un regno di Giustizia. Ma cos’è questa giustizia? E potranno mai gli uomini darsi degli strumenti per raggiungerla, o almeno per avvicinarsi ad essa?
Rispetto all’interpretazione di Cristo come “agnello sacrificale” si potrebbe dire con Renè Girard che Cristo è sì l’agnello sacrificale, così come inteso nel brano del Servo del Signore di Isaia, ma è l’agnello che accettando volontariamente il sacrificio, prendendolo su di sé, smaschera questo sistema in cui c’è bisogno della persona o delle categorie di persone su cui scaricare tutta la malvagità e la colpa, deresponsabilizzando il resto della comunità. Bisogna stare attenti nel momento in cui si chiamano in gioco queste immagini, queste decisive categorie teologiche, a non appiattirle troppo su una convenzione che ancora una volta, ad esempio, tende a identificare l’esperienza cristiana con quella di un amore troppo facile, di un amore troppo stereotipato, mentre nel modo in cui Gesù entra nella Passione, nel modo in cui la vive, sono racchiusi anche una pesante denuncia e lo smascheramento del cosiddetto “sistema vittimario”.
Non basta il capro espiatorio, non basta la delega su di lui, ma serve la presa di coscienza della comunità. È questo quanto c’è di straordinario nel passo di Isaia, dove all’inizio e al termine si leggono due annunci ascoltati dalla bocca stessa di Dio. Invece, nella parte centrale del canto chi è che parla? Il discorso assume la prima persona plurale e diventa un “noi” che racconta di questo servo percosso, castigato, umiliato, con cui non bisogna aver niente a che fare perché è una persona disgustosa e maledetta.

Ma quali sono le domande fondamentali? La vita, la morte, le verità, la follia, il bello, il brutto... qual è questa realtà il cui senso sfugge all’uomo?... Che cosa incontriamo nella mediazione? Le domande fondamentali: l’amore, l’odio, l’onore, il tradimento... spesso si nascondono dietro a delle banalità, perché sembra non esserci più spazio per queste domande... L’oggetto della mediazione non è la corda dello stendibiancheria, ma la morte, l’odio, l’amore.
J. Morneau, Lo spirito della mediazione, Franco Angeli, Milano 2000
Ma nel dire questo, che sarebbe esattamente il livello a cui si ferma la logica del capro espiatorio, il “noi”, accede a un livello superiore da cui, guardando al servo, rivede se stesso. Il suo “castigo che ci dà salvezza” apre all’assunzione piena di responsabilità nella riflessione che il “noi” va facendo sul servo. La giustizia non è compiuta senza questa assunzione di responsabilità.
Le persone devono rispondere, sono chiamate a vivere responsabilmente, ad assumersi la responsabilità non tanto di qualcosa ma verso qualcuno. Rispondere di qualcosa corrisponde alla visione diciamo così “penale” del diritto, che segue ancora la logica prevalentemente retributiva.
È una logica che ha un suo fondamento (la sanzione può e deve aiutare a prendere coscienza del male che si è compiuto), ma il problema è che l’amministrazione della giustizia sembra non avere altre energie, proprio quelle che servirebbero a compiere il percorso che stabilisce la nostra Costituzione, quello del recupero e del reinserimento del reo.

Giustizia riparativa e mediazione penale sottolineano la responsabilità verso qualcuno – l’altro, la vittima, colui che ha subito un’ingiustizia – prima ancora che verso qualcosa – una norma, una regola, un codice che è stato infranto. E il pensiero corre a Caino:“Sono forse io il custode di mio fratello?” E alla pratica del Ryb. Affondano davvero qui le radici di questa visione della giustizia? Possono giustizia riparativa e mediazione penale essere lette come risposta cristiana all’esigenza di giustizia?
Premetto per correttezza che non sono un esperto di mediazione. Però ho lavorato a fianco di mediatori, educatori, ecc., condividendo con loro diverse riflessioni. La mediazione penale sembra una via molto più vicina alla sensibilità del testo biblico e al suo modo di intendere la giustizia. La giustizia biblica, la giustizia che Dio vuole nei rapporti col suo popolo sulla centralità della relazione. Ciò appare in modo esemplare nella dinamica del Ryb, la controversia bilaterale.
Quello che struttura la possibilità del Ryb è la relazione che lega i due contendenti. Nel momento in cui una persona riceve un’ingiustizia o un torto va dall’indiziato, lo accusa e lo attacca direttamente dicendogli: “Che cosa mi hai fatto? Perché mi hai fatto questo?”. L’altro può accettare questa accusa e dire cos’ha fatto, magari che se ne dispiace, oppure può a sua volta contrattaccare iniziando una contesa che può sciogliersi con il riconoscimento di un torto e di una ragione, quindi con la possibile giustizia rispetto al danno arrecato, oppure sfocia nell’esito drammatico del conflitto dove la parola passa alle armi.
Questo è uno dei modi tipici di affrontare le controversie: Dio procede così nei confronti del suo popolo e anche il popolo nei confronti di Dio: “Perché ci hai portati in questo deserto a morire? Non c’erano abbastanza tombe in Egitto perché noi potessimo morire tutti là?” si legge in uno dei passaggi drammatici del libro dell’Esodo.
Il Ryb, alla cui base c’è una relazione forte come può essere un patto di alleanza, viene spesso identificato con l’iniziativa di un soggetto che ne accusa un altro. È una parola che chiede una risposta. Il danno arrecato al soggetto che accusa rappresenta un vulnus decisivo nella relazione che lega i due soggetti. Colui che intenta il Ryb, principalmente, è interessato a che questa relazione non vada perduta. Come dice Pietro Bovati, che a questa dinamica biblica ha dedicato studi appassionati, ciò che interessa a colui che intenta il Ryb non è vincere, ma convincere. Che ci sia un ristabilimento della relazione. Qualcosa di simile, nello spirito del modo di procedere, si trova nella regola della correzione fraterna. Gesù dice: “se uno in comunità sbaglia prendilo da parte tu da solo, rimproveralo, fagli capire. Se ti ascolterà, avrai guadagnato tuo fratello.”
È interessante la conclusione di questo primo passaggio. Se la persona prende coscienza del suo errore e si corregge ciò che è davvero importante non è che la persona riconosca che tu hai ragione e lui torto. Piuttosto, decisivo è che, in questo modo, tu avrai guadagnato tuo fratello. Quella relazione che ci lega non va perduta. È questa la cosa importante.
D’altra parte nella Scrittura, non mancano esempi di conflitto che appaiono ben difficili da sanare: basti pensare al caso di Abramo e Lot, Giacobbe e Labano ma anche Pietro e Paolo, in parte, per continuare l’annuncio del

Cosa è il Ryb?
Nell’antico diritto ebraico esistevano due procedure per riparare i torti. La prima, il nispat o giudizio, era una procedura a tre, analoga al processo che conosciamo: l’offeso conduce l’offensore, per ottenerne la condanna, davanti ad un terzo imparziale, il giudice. Questo tipo di giustizia valeva se i due litiganti erano nemici o, almeno, estranei. Qualora invece i contendenti fossero stati amici o legati da un rapporto vitale (padre/figlio; marito/moglie; fratello/fratello; Dio/Abramo; Dio/il popolo eletto...) si apriva soltanto la possibilità di una disputa a due, il Ryb, il litigio...
Il Ryb è uno scontro in cui lo scopo non è la punizione del colpevole, ma il ricomponimento della controversia attraverso il riconoscimento del torto compiuto, il perdono e quindi la riconciliazione e la pace.
È l’umanità dell’avversario che si cerca di toccare e su questa si vuole influire, perché si è interessati prima di tutto ad essa. L’obiettivo non è dunque la giustizia retributiva, cioè il ripianamento del torto con una sanzione equivalente. È invece il ristabilimento di una comunanza, incrinata o infranta dal torto commesso e subito...
Il dolore dell’offensore non vale come punizione o sanzione. Vale come percorso necessario in vista del ravvedimento.
E quindi anche la più dura delle misure impiegate per questo fine rappresenta un agire non soltanto secondo giustizia, ma anche secondo amore per l’altro.
C. M. Martini, G. Zagrebelsky, La domanda di giustizia, Einaudi, Torino 2003
Vangelo, si devono dividere. Paolo, poi, si divide un po’ da tutti: da Barnaba, da Sila, da Marco. Queste relazioni restano come “sospese”: non c’è una facile ricomposizione, come un happy ending in cui poter far tornare i conti.
Ci sono situazioni che almeno in questo cammino terreno non si sciolgono, in cui la situazione non trova soluzione e l’unica risposta è poter vivere in modo tale che non si perpetui la violenza reiterandola oppure reiterando l’odio verso l’altro. Le strade si dividono: accetto che tu possa vivere, come tu accetti la mia vita, ma stando lontani.
Assumiamo l’impegno di non ferirci. È interessante che anche nel Ryb un possibile esito, esaurito ogni tentativo di far prendere coscienza e di ricomporre il conflitto, sia il silenzio della vittima. È questa una parola estrema. Alcuni leggono da questa prospettiva il silenzio di Gesù durante la Passione. A un certo punto Gesù tace. Non risponde più ad alcuna domanda.
Il silenzio di Gesù è un silenzio che si fa carico della mancata risposta dell’altro e che, da una parte non lo chiude nella sua colpa, dall’altro si pone ancora come estremo tentativo, parola estrema, e, nello stesso tempo, non vede possibile nell’altro la presa di coscienza del male che ha compiuto.
A questo riguardo, nel suo Vangelo Luca ci ricorda le parole di Gesù che chiede perdono per quelli che lo crocifiggono. È interessante il fatto che Gesù non si rivolga direttamente ai suoi persecutori dicendo: “io vi perdono”, ma piuttosto: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. Perché? Perché Gesù assume tutto il peso del peccato di questi “che non sanno”. Cioè non sono pienamente consapevoli del la violenza che stanno compiendo. Se non c’è questa presa di coscienza, da parte di chi commette il male, non c’è normalmente neanche il terreno pronto per accogliere parole di perdono.
Nel momento in cui Gesù si rivolge al Padre chiede a Lui di perdonare “loro”. Gesù prega per loro. In filigrana sembra trasparire tutta la sofferenza di Gesù per non poter andare oltre questa ignoranza, questa inconsapevolezza del loro agire.
A proposito ancora del Ryb e delle analogie con il metodo e lo spirito della mediazione, si può ricordare lo studio di Eugen Wiesnet, gesuita tedesco morto nel 1983, dal titolo: Pena e retribuzione. La riconciliazione tradita. Sul rapporto tra cristianesimo e pena. Wiesnet sostiene che dal testo biblico al diritto occidentale c’è un interessante scivolamento di significato della parola giustizia che, in ebraico è tzedaka. Mano a mano che viene assunta nella cultura occidentale, la tzedaka– che diventa la dikaiosyne greca e la iustitia latina – non conosce solo una traduzione del termine. C’è anche uno scivolamento semantico.
Cioè la giustizia biblica diventando in qualche modo la iustitia latina viene ad avere una sempre più esplicita connotazione retributiva. Quindi quella giustizia che nel testo biblico ha il suo senso più alto proprio nei testi del Ryb, diventa invece il fondamento di un rapporto retributivo, proporzionale. In questo modo cambia però nettamente il rapporto accusato/accusatore, colpevole/vittima. Al centro non c’è più la relazione, ma il danno. In questo modo, il colpevole diventa la sua colpa.

È stato scritto che il perdono può rivelarsi l’unica risposta laddove esista l’imperdonabile. Il perdono tuttavia rientra necessariamente in una dimensione relazionale. È perverso perdonare senza il pentimento e/o la richiesta di perdono dell’altro: presuppone che tutto possa proseguire come prima (che l’offesa arrecata non abbia invece sancito un prima e un dopo) e non promuove la presa di coscienza e il cambiamento dopo quanto avvenuto. Eppure Gesù perdona dalla croce...
È molto forte questa sollecitazione di Jacques Derrida sul perdono come è la sola risposta possibile all’imperdonabile. Recentemente, insieme ai collaboratori della Sesta Opera e della rivista “Dignitas. Percorsi di carcere e di giustizia”, ho potuto avere degli incontri con delle persone che hanno subito delle gravi violenze, persone alle quali sono stati uccisi dei familiari, mariti, figli. Una di loro, Carole Beebe Tarantelli (il cui marito Ezio fu ucciso dalle BR nel 1987) dopo aver visitato nelle carceri alcune persone, membri della stessa organizzazione terroristica che nel frattempo erano stati arrestati, ha detto in una intervista, testualmente: “Il problema sta qui: se noi, che formiamo questa società, possiamo riconciliarci con loro. A me sembra che quello che la società civile deve cercare di ritrovare è che ognuno, seppure un assassino, è sempre un essere umano [...].
Non ci deve essere nessuno che sia soltanto nemico. Anzi. Sono convinta che è proprio in questo nostro impegno verso l’altro, verso questo scarto di umanità che è lui, la persona che uccide, che ci manteniamo civili. Non dobbiamo ovviamente ignorare il fatto che quella persona ha assassinato o che assassinerebbe ancora, ma non lo dobbiamo identificare totalmente nel suo ruolo di assassino come ha fatto lui identificando le sue vittime con il loro ruolo che andava cancellato”.
Proseguendo, a proposito del perdono, dice: “In merito al perdono, invece, io non credo che sia giusto perdonare indistintamente. Ad esempio non posso perdonare per gli altri familiari. Posso solo perdonargli la sofferenza che ha causato a me. Dalla mia sofferenza parlare alla sua. E lui a me. Da essere umano a essere umano [...] Questo perdono è il gesto da parte della vittima che dice di recepire il dolore dell’assassino e di non voler produrre in lui più dolore di quello che ha già”.
Si vede da queste parole come il perdono sia davvero un itinerario, in cui non si può sapere se ci sarà mai una reale condizione per una riconciliazione. Anche la mediazione penale non finisce sempre con un esito positivo, con un incontro reale tra il reo e la vittima. Dalla mia sofferenza parlare alla sua. Riconoscere nel reo, nella persona che mi ha fatto del male, che c’è una sofferenza che in qualche modo mi riguarda. Credo che questo sia un atteggiamento di una grandezza tale che, se ci sono condizioni per il perdono, questo sentimento lo può rendere possibile.
Lasciando ancora parlare Carole Tarantelli, cerchiamo di avere ben presente da quale punto di partenza ci si muove: “Mi sembra che quando la malvagità umana, organizzandosi per dare morte, irrompe nella vita di una persona, sia un’esperienza talmente totale che se immaginiamo la nostra vita come un albero lo sradica e lo travolge. Tu non sei più quello che eri, sei un altro. La tua vita non è più quella che era, è un’altra [...] Da questo atto irrevocabile comincia un processo la cui negatività non è più controllabile e non si possono più fermare le conseguenze che derivano da quell’atto.
Sembra quasi impossibile trasformare tutta questa negatività in modo che non produca più dolore”. Partendo da questo, perché queste sono le esperienze, il fatto che una persona possa dire: “dalla mia sofferenza posso capire la sua”, quindi possa riconoscere il dolore, la profondità, l’interiorità dell’altro, rende poi impossibile identificare totalmente l’altro con il nemico. Da qui – e solo da qui – può muovere i primi passi l’itinerario di un’autentica liberazione e di un pieno perdono.

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