SOLIDARIETÀ

L’Amore del sabato sera

La solidarietà tra spettacoli in prima serata e spot mediatici. Ma c’è chi lavora con le comunità favorendo uno sviluppo comunitario.
Davide Sacquegna (Servizio Comunicazione e Raccolta Fondi AIFO)
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Il lancio su RAI 1 della trasmissione Amore ha riportato agli onori delle cronache l’adozione a distanza (anche sostegno a distanza), utilizzata da alcune ONG. In pratica, il donatore versa una quota mensile per il sostegno di un bambino all’interno di un progetto di cooperazione sostenuto dall’ente beneficiario in un Paese in via di sviluppo. Al donatore, periodicamente, vengono inviate informazioni e spesso anche fotografie del bambino, consentendogli di verificare i risultati della sua generosità e di veder crescere a distanza il “suo” bambino. Come tecnica di raccolta fondi, l’adozione a distanza si rivela efficacissima in quanto consente un coinvolgimento emotivo diretto del donatore e gli permette di sentirsi in qualche modo un “genitore adottivo”. L’efficacia di questa tecnica è tale che alcuni organismi, pur operando con interventi comunitari, propongono ugualmente ai donatori l’adozione di un bambino, con valore simbolico, in quanto il sostegno non va a lui singolarmente ma alla sua comunità. Dal punto di vista del rigore etico e della sostenibilità degli interventi realizzati, il sostegno a distanza individuale suscita delle forti riserve, al punto che molte ONG lo evitano, preferendo l’adozione di un intero progetto. Questa è appunto la scelta operata dall’AIFO, in coerenza con il suo approccio generale alla cooperazione allo sviluppo. Ma perché AIFO rifiuta il sostegno a distanza individuale (e anche l’adozione simbolica di un bambino)?

Il principio di fondo è lo sviluppo comunitario. Lavorare con le comunità anziché sui singoli individui è particolarmente importante nel caso dei progetti rivolti all’infanzia, perché solo l’approccio comunitario può consentire risultati duraturi e dare reale beneficio ai bambini coinvolti. Gli interventi rivolti al singolo bambino possono creare disparità tra i bambini di una stessa comunità, creano nel bambino la percezione di essere dipendente dalla generosità di altre persone e al contempo danno al donatore la pericolosa percezione di un legame esclusivo col bambino prescelto. Gli interventi individuali non creano sviluppo e non portano a benefici durevoli e sostenibili. Le azioni di carattere comunitario, per contro, responsabilizzano le comunità beneficiarie, favorendo uno sviluppo che nasce dall’interno della comunità stessa, creando i presupposti per un cambiamento duraturo delle condizioni di vita dei bambini. I benefici ricadono sull’intera struttura sociale e non su singoli individui. Inoltre, con l’approccio comunitario, i beneficiari diventano protagonisti delle azioni intraprese: a dare concretezza agli interventi sono gli operatori sociali, gli insegnanti, i genitori dei bambini coinvolti, e non operatori provenienti dall’estero. Solo in questo modo si può garantire la piena aderenza degli interventi ai bisogni reali dei beneficiari: rendere le comunità protagoniste del loro sviluppo le salvaguarda dal rischio di un’“esportazione” di modelli inappropriati, in quanto non scaturiti da una conoscenza profonda della realtà locale, quella conoscenza che solo gli operatori locali possiedono.

Infine, non possiamo esimerci dal constatare che le adozioni a distanza si configurano come azioni costruite su misura per soddisfare i bisogni di “genitorialità” dei donatori: il rischio è quello di dare priorità a un bisogno dei finanziatori anziché al bisogno reale dei beneficiari, trasformando questi ultimi quasi in strumenti per la raccolta di fondi da parte della ONG. Le ricadute negative di un simile approccio sono evidenti anche sul piano del suo valore in termini di educazione del pubblico a cui viene proposto di sostenere un bambino. Si rischia, infatti, di creare una sorta di tamagochi a distanza, cioè una situazione in cui il donatore si compiace di allevare a distanza il piccolo adottato attraverso la sua donazione periodica, senza percepire il reale significato degli interventi che vengono realizzati: in tal modo il pubblico è incoraggiato a donare con spirito assistenziale, anziché essere educato ai valori dello sviluppo, della cooperazione e del dialogo interculturale. Le riserve riguardanti il sostegno individuale sono condivise, tra l’altro, da enti di certificazione etica come la Fondazione Zewo, operante in Svizzera, che certifica i progetti delle organizzazioni senza scopo di lucro sulla base di rigorosi parametri etici. La speranza è che si sviluppi progressivamente nel pubblico la consapevolezza che non basta donare, ma occorre farlo con intelligenza e consapevolezza, premiando i progetti più sostenibili ed eticamente corretti, anche dal punto di vista dei metodi. 

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