L’Amore del sabato sera
Il lancio su RAI 1 della trasmissione Amore ha
riportato agli onori delle cronache l’adozione a distanza (anche sostegno a
distanza), utilizzata da alcune ONG. In pratica, il donatore versa una quota
mensile per il sostegno di un bambino all’interno di un progetto di
cooperazione sostenuto dall’ente beneficiario in un Paese in via di sviluppo.
Al donatore, periodicamente, vengono inviate informazioni e spesso anche
fotografie del bambino, consentendogli di verificare i risultati della sua
generosità e di veder crescere a distanza il “suo” bambino. Come tecnica di
raccolta fondi, l’adozione a distanza si rivela efficacissima in quanto
consente un coinvolgimento emotivo diretto del donatore e gli permette di
sentirsi in qualche modo un “genitore adottivo”. L’efficacia di questa
tecnica è tale che alcuni organismi, pur operando con interventi comunitari,
propongono ugualmente ai donatori l’adozione di un bambino, con valore
simbolico, in quanto il sostegno non va a lui singolarmente ma alla sua comunità.
Dal punto di vista del rigore etico e della sostenibilità degli interventi
realizzati, il sostegno a distanza individuale suscita delle forti riserve, al
punto che molte ONG lo evitano, preferendo l’adozione di un intero progetto.
Questa è appunto la scelta operata dall’AIFO, in coerenza con il suo
approccio generale alla cooperazione allo sviluppo. Ma perché AIFO rifiuta il
sostegno a distanza individuale (e anche l’adozione simbolica di un bambino)?
Il principio di fondo è lo sviluppo comunitario. Lavorare
con le comunità anziché sui singoli individui è particolarmente importante
nel caso dei progetti rivolti all’infanzia, perché solo l’approccio
comunitario può consentire risultati duraturi e dare reale beneficio ai bambini
coinvolti. Gli interventi rivolti al singolo bambino possono creare disparità
tra i bambini di una stessa comunità, creano nel bambino la percezione di
essere dipendente dalla generosità di altre persone e al contempo danno al
donatore la pericolosa percezione di un legame esclusivo col bambino prescelto.
Gli interventi individuali non creano sviluppo e non portano a benefici durevoli
e sostenibili. Le azioni di carattere comunitario, per contro, responsabilizzano
le comunità beneficiarie, favorendo uno sviluppo che nasce dall’interno della
comunità stessa, creando i presupposti per un cambiamento duraturo delle
condizioni di vita dei bambini. I benefici ricadono sull’intera struttura
sociale e non su singoli individui. Inoltre, con l’approccio comunitario, i
beneficiari diventano protagonisti delle azioni intraprese: a dare concretezza
agli interventi sono gli operatori sociali, gli insegnanti, i genitori dei
bambini coinvolti, e non operatori provenienti dall’estero. Solo in questo
modo si può garantire la piena aderenza degli interventi ai bisogni reali dei
beneficiari: rendere le comunità protagoniste del loro sviluppo le salvaguarda
dal rischio di un’“esportazione” di modelli inappropriati, in quanto non
scaturiti da una conoscenza profonda della realtà locale, quella conoscenza che
solo gli operatori locali possiedono.
Infine, non possiamo esimerci dal constatare che le adozioni
a distanza si configurano come azioni costruite su misura per soddisfare i
bisogni di “genitorialità” dei donatori: il rischio è quello di dare
priorità a un bisogno dei finanziatori anziché al bisogno reale dei
beneficiari, trasformando questi ultimi quasi in strumenti per la raccolta di
fondi da parte della ONG. Le ricadute negative di un simile approccio sono
evidenti anche sul piano del suo valore in termini di educazione del pubblico a
cui viene proposto di sostenere un bambino. Si rischia, infatti, di creare una
sorta di tamagochi a distanza, cioè una situazione in cui il donatore si
compiace di allevare a distanza il piccolo adottato attraverso la sua donazione
periodica, senza percepire il reale significato degli interventi che vengono
realizzati: in tal modo il pubblico è incoraggiato a donare con spirito
assistenziale, anziché essere educato ai valori dello sviluppo, della
cooperazione e del dialogo interculturale. Le riserve riguardanti il sostegno
individuale sono condivise, tra l’altro, da enti di certificazione etica come
la Fondazione Zewo, operante in Svizzera, che certifica i progetti delle
organizzazioni senza scopo di lucro sulla base di rigorosi parametri etici. La
speranza è che si sviluppi progressivamente nel pubblico la consapevolezza che
non basta donare, ma occorre farlo con intelligenza e consapevolezza, premiando
i progetti più sostenibili ed eticamente corretti, anche dal punto di vista dei
metodi.