Uno zingaro al semaforo
Un Rom non è necessariamente uno zingaro.
Simbologia e percezioni di realtà nomadi.
Parlare “al posto di”, assumere la parola “per
qualcuno”, anche a fin di bene, comporta sempre un rischio di esproprio, che
è comunque bene dichiarare. Anche quanto segue non è esente dal rischio
enunciato, anche se – o forse proprio perché – proviene da una condizione
per diversi motivi intrecciata a un contesto romano (aggettivo di Rom). Pure,
ritengo che questa posizione sia un punto di vista necessario, la cui mancanza
lascia un vuoto che chiede di essere colmato. La domanda più semplice potrebbe
essere: cosa vede qua la Chiesa e la società? Cosa si vede della società e
della Chiesa da qua? La posizione apertamente razzista espressa da movimenti
anti-zingari di vario genere (ricordiamo la condanna per istigazione all’odio
razziale inflitta ai firmatari di un appello per cacciare gli zingari da Verona
nel 2004 e successiva manifestazione di protesta della Lega nel febbraio 2005),
si accompagna all’atteggiamento altrettanto discriminatorio di molte
informazioni dei mass-media. Ma a questo dato se ne aggiunge un altro, meno
evidente, ma non innocuo.
È rappresentato dall’uso di un termine, con il quale ci si
scontra invano: degrado. Il dramma è che questo termine non viene utilizzato
soltanto da chi manifesta disprezzo evidente per la realtà degli zingari, ma
anche da persone e associazioni di “buona volontà” che si propongono di
“elevare” i Rom dalla loro attuale situazione. Il fastidio che procura
risiede nel suo uso non controllato e in fondo, si direbbe, piuttosto
colonialista: alla base razionale c’è un desiderio di solidarietà, la volontà
di riconoscere diritti, di attribuire spazi, di rimediare a ingiustizie.
Tuttavia il suo orizzonte è quello di un senso di superiorità degli
“operatori” di vario genere, degli “educatori” inviati dai Rom: quando
va bene, essi assimilano l’esperienza con i Rom a quelle raccolte nel mondo
dell’handicap o dell’educazione dei minori o del “recupero” della
tossicodipendenza. L’invito ovvio è quello di provare a entrare in uno stato
di “laboratorio”: non per mettere aprioristicamente in dubbio la volontà
buona di chi opera ma per esigere un atteggiamento di verifica.
La distanza che separa la realtà romani da quanto viene
percepito come zingaro ha radici lontane e complesse. Ha spesso anche una
salutare funzione di difesa dall’invadenza. In ogni caso è un dato da tener
presente. Non è lo stesso utilizzare le autodenominazioni – Rom, Sinti ad
esempio – o il titolo zingari, che, almeno nel contesto dei gruppi presenti in
Italia, suona dispregiativo, quanto “terrone”, e non è gradito. Un altro
aspetto con cui si manifesta questa distanza è rappresentato dall’impatto
simbolico della realtà romani, sia essa rappresentata come cifra del negativo (L.
Narciso, La maschera e il pregiudizio), che come stereotipo positivo (D.
Todesco, Il pregiudizio positivo). In alcuni casi questo tipo di
approccio – per cui i Rom evocano provvisorietà e forza vitale, nomadismo
intellettuale e interiore, possibilità di abitare sensatamente frammenti – dà
vita a costruzioni suggestive, sia dal punto di vista religioso (Pontificio
consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, Orientamenti per
pastorale degli zingari, 2006, nn. 22-28) che filosofico (R. Braidotti, Pensiero
nomade). Certamente una lettura simbolica della realtà è parte stessa del
nostro modo di conoscere e organizzare i dati: potrebbe essere buona norma
quanto meno il mantenere viva la coscienza che nel simbolo si presentano uomini
e donne, nomi propri, situazioni complesse, ingiustizie e sopravvivenze.
Un aspetto, infine, che si potrebbe richiamare come parte di
un “mosaico di pace”, è il particolare modo con cui in genere i Rom vivono
l’appartenenza a un territorio. Il loro compattarsi a livello familiare e
rispettivamente la loro distanza dall’identificazione in “patrie”, li
rende estranei ai conflitti etnici e alle guerre. Questa attitudine viene spesso
giudicata “collaborazionista” ed è in ogni caso uno degli argomenti
pretestuosi avanzati poi per farne vittime di ritorsioni, di espropri e di
espulsioni: l’esempio della guerra in Kosovo è purtroppo eloquente. In questo
caso è urgente una denuncia delle violenze che troppo spesso escono dalla
cronaca come non interessanti. Ma la vicenda potrebbe contenere anche utili
insegnamenti: se fossimo molti di più a considerare che conflitti etnici e
interessi di guerra “non ci appartengono”, potremmo probabilmente avere una
prassi più disarmante e una storia meno insanguinata.