Oltre il fallimento
Ci
sono situazioni di vita che determinano un difficile rapporto con la comunità
ecclesiale. Sono talvolta difficoltà che nascono da precise scelte e che fin
dal principio includono una volontà di allontanamento dalla comunità. In casi
simili è evidente che la Chiesa deve capire se può fare qualcosa; in ogni caso
deve rispettare le persone coinvolte anche se le loro decisioni non
corrispondono né alle convinzioni né alle attese ecclesiali. Assistiamo oggi
all’innegabile distacco di parte di battezzati dall’appartenenza alla
Chiesa. Un distacco spesso conseguenza di espressione della vita affettiva e
sessuale non coincidenti con quelle ritenute giuste dalla Chiesa. Unioni di
fatto, relazioni stabili senza convivenza o scandite sul fine settimana, di tipo
omo o eterosessuale, sono forme entrate ormai a far parte del nostro orizzonte
sociale. I soggetti coinvolti per lo più non avanzano richieste specifiche alla
Chiesa; ne avanzano piuttosto nei confronti dello Stato perché cercano una
qualche forma di riconoscimento o un’equiparazione giuridica al matrimonio e/o
alla famiglia basata sul matrimonio.
La
tensione più grande che oggi la Chiesa sperimenta riguardo alla famiglia è
quella nascente dalla situazione dei credenti che accedono al matrimonio civile
ma vorrebbero celebrare anche il sacramento del matrimonio, perché vogliono
mantenere saldo il legame di appartenenza alla Chiesa. Poiché la Chiesa ritiene
che la loro situazione sia in contraddizione con le parole di Gesù
sull’indissolubilità del matrimonio, non possono accedere alla celebrazione
sacramentale della loro unione e non possono attendersi l’assoluzione e
l’ammissione all’eucaristia a meno che trasformino il loro rapporto di
coppia in un legame di tipo non coniugale. Si tratta dei cosiddetti divorziati
risposati. Sono una minoranza, sempre più crescente. Questa situazione è fonte
di preoccupazione seria in tutti. Al di là infatti di inevitabili eccezioni, è
largamente prevalente il desiderio di trovare una soluzione – almeno sul piano
pastorale – che sottragga queste persone a emarginazione sacramentale. Una
soluzione che non sacrifichi la verità, in particolare la verità del primo
matrimonio. Sarebbe facile mostrare quanto nel corso del secolo XX, specialmente
negli ultimi decenni, la Chiesa abbia cercato di aprire possibilità in questa
direzione; basti ricordare lo sforzo fatto dal diritto canonico per comprendere
meglio il matrimonio facendo così emergere nuovi elementi determinanti la
nullità del consenso matrimoniale.
Tuttavia,
si tratta ancora di una questione difficile da risolvere. Ovunque si fanno
tentativi pastorali e si promuovono ricerche teologiche e giuridiche. Lo stesso
Benedetto XVI, parlando ai preti della Val d’Aosta il 25 luglio 2005, poco
tempo dopo la sua elezione, ha fatto riferimento alla necessità di studiare più
accuratamente il problema. Prima ancora di ogni studio e tentativo pastorale, è
necessario che nella Chiesa cambi il modo di guardare a queste situazioni. Esse
sono spesso viste come il risultato di colpe morali, di comportamenti
peccaminosi, di cedimenti a desideri disordinati, di superficialità nella fede
e nell’impegno matrimoniale. Certo, non si può negare che ci siano casi in
cui le prime unioni siano distrutte da comportamenti colpevoli e da
superficialità. Esiste però ormai la consapevolezza che tante sono le cause,
psicologiche, relazionali, morali, religiose, fisiche, sociali, economiche, che
possono condurre al fallimento di un matrimonio. Quando una realtà è
irreparabilmente fallita, allora alla Chiesa non rimane che una sola possibilità
che abbia senso: aiutare la ricostruzione delle persone e aprire loro di nuovo
un futuro, su basi più solide e su una più forte consapevolezza. Si tratta di
non legare la vita delle persone a un passato definitivamente finito, ma di
promuovere le condizioni adeguate perché il futuro non ripercorra i sentieri
fallimentari del passato. La Chiesa sa che in certi casi il passato va
riconosciuto come definitivamente trascorso tanto che nella sua storia ha
ripetutamente preso atto di ciò consentendo nuove unioni, specialmente nel caso
di conversioni alla fede contrastate dal coniuge non credente ma anche in varie
altre occasioni. Senza una simile conversione di mentalità da parte della
Chiesa si potrà forse trovare il modo di allargare i confini della nullità o
di ammettere più frequentemente all’eucaristia coloro che si trovano in
questa situazione ma rimarranno probabilmente soluzioni insufficienti, non prive
di contraddizioni e largamente esposte all’ingiustizia nella loro applicazione
concreta.